Malaparte intervista Mao. Forse

In Interviste by Simone

Malaparte, invitato nel 1957 a partecipare alle commemorazioni dello scrittore Lu Xun, entrò a Pechino dalla Mongolia. La Cina gli appare una terra dipinta e Mao Zedong un sito archeologico. Vero o presunto che sia, il suo incontro con Mao lo colpisce al punto che lo scrittore lascerà ai cinesi la celebre villa di Capo Massullo, a Capri.
Ideologo del fascismo mussoliniano, inventore dello ‘squadrismo intransigente’, firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti, ma che pose in exergo al suo La pelle (libro inserito dalla Chiesa romana nell‘Index Librorum Prohibitorum, e incensato da Milan Kundera come uno dei maggiori di tutto il Novecento) la dedica a «tutti i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945, morti inutilmente per la libertà dell’Europa», Kurt Erich Suckert, in arte Curzio Malaparte, morì ‘cinese’. Nel senso che la sua adesione alla causa rivoluzionaria di quel popolo – almeno da quanto raccontato in prima persona nel postumo Io, in Russia e in Cina – fu totale e appassionata.

Quello in Cina fu appunto l’ultimo viaggio di Curzio Malaparte. Invitato da Pechino a partecipare alle commemorazioni dello scrittore Lu Xun, giunse nella Repubblica Popolare nel 1957, anno della feroce ‘rettifica’ della campagna dei Cento Fiori. Afflitto da un cancro ai polmoni già in fase avanzata, Malaparte attraversò deserti, città e siti archeologici con il piglio dell’esploratore, dell’antropologo consumato, facendo dell’eccesso estetico e della monumentalità dell’io – ancora una volta – la sua cifra di conoscenza.

Si farebbe tuttavia un torto all’autore, se si volesse liquidare il suo reportage come una testimonianza di interesse relativo. Al contrario. Benché porti su di sé i segni di una revisione in atto, non condotta purtroppo a termine, Io, in Russia e in Cina – curata per l’editore Vallecchi da Giancarlo Vigorelli – al di là degli elementi autobiografici è un racconto di irriducibile originalità, pensato e condotto sulla pagina proprio negli anni in cui la Cina, con lentezza ma con sempre maggiore insistenza, sorgeva all’orizzonte della Storia quale rinnovato granaio di utopie.

Malaparte entrò a Pechino giungendo dalla Mongolia, dopo una complessa erranza che dall’Unione Sovietica – prima tappa di quel viaggio – lo vide arrivare in Cina. Terra che gli appare ‘dipinta’, la cui superficie è sempre riducibile alla metafora pittorica, al paradigma figurativo: «Il paesaggio è simile a quello dipinto da Uan Sin Men, che visse alla fine del secolo XI, sotto la Dinastia Sung, nel suo famoso rotolo di seta lungo venti metri ‘Mille lì di montagne e di fiume’».

Anche la capitale della Repubblica Popolare Cinese, il cui cielo è di «porcellana lucente, venato di sottilissimi ricami turchini, bianchi, rosa, come quel famoso smalto che è detto ‘cloisonné‘», non sfugge a una così schietta prospettiva museale. La Cina è un’opera d’arte, e l’ecfrasis – ovvero la descrizione di un’opera d’arte – l’unico codice in grado di renderne conto.

Anche Mao Zedong è un’opera d’arte. Non è un individuo in carne e ossa quello descritto nelle pagine dedicate all’incontro tra Malaparte e il Presidente. Si tratta, molto probabilmente, di una raffigurazione desunta direttamente dai manifesti murali della propaganda. Allo stesso tempo, i particolari che rendono riconoscibile il volto di Mao, sono la parte emersa di un disegno arcano per cui proprio quell’uomo, e non un altro, sia a capo di una nazione – ai tempi – di «seicento milioni di abitanti»: 

«È un uomo sui sessant’anni, di statura oltre la media, dalle spalle ampie, il viso largo, la fronte altissima, i capelli neri, folti e soffici. Ha i lineamenti regolari, gli occhi sono lievemente obliqui, il naso ben modellato, la carnagione pallida: non di quel pallore d’avorio che hanno in generale i cinesi, ma di un pallore olivastro, simile a quello dei sardi. Ha un piccolo porro scuro sul mento, e  i denti nerissimi, di ebano. Son così perfettamente neri e lucenti, che sembran fatti d’ossidiana».

Si intitola Intervista con Mao Tze Tung il capitolo di io, in Russia e in Cina nel quale Malaparte narra del suo incontro con il capo della Repubblica Popolare. Fu davvero così? Si può parlare in concreto di un’intervista vera e propria?

Giordano Bruno Guerri, che più di altri in Italia ha lavorato per restaurare gli aspetti autentici della vita e del carattere dello scrittore pratese (monumentale l’opera documentaria che fonda il suo fortunato studio L’Arcitaliano) scrive infatti: «i suoi libri sono pieni di autobiografia, ma bisogna accogliere ogni notizia con diffidenza e controllarne l’attendibilità prima di utilizzarli per una biografia».  In tal senso, l’epigrafe che tutto tiene è proprio l’emblematico quesito coniato dallo stesso Malaparte: «Che bisogno c’era di dire subito la verità?».

In effetti le domande che lo scrittore riesce a porre al Grande Timoniere sono assai sparute, mentre è Mao a incalzare l’ospite con questioni che spaziano dalla geopolitica ai protagonisti della sinistra italiana di allora (Nenni e Togliatti, del quale Mao dice «è un uomo che pensa»), dal costo della vita in Occidente al potere d’acquisto dei salari cinesi.

Intervista o no, lungo o breve che sia stato l’incontro, non è tanto la veridicità del racconto a suscitare interesse, quanto invece la descrizione della persona di Mao. Anche perché alla bellezza del volto si accompagna la bontà dell’animo, come nella più classica delle analogie estetiche: «Mi affascinava il suo sguardo, che è fermo, sereno, dolce, profondamente buono. Tutti i visitatori stranieri concordano nel disegnare di lui un ritratto, nel quale la fermezza si accompagna alla bontà. Se la sua prodigiosa vita d’uomo d’azione, di rivoluzonario, è lo specchio del suo coraggio, del suo spirito di sacrificio, della sua volontà di ferro, il suo viso è lo specchio del suo animo buono, generoso».

Anche Mao infine appartiene a quel vasto, sconfinato museo che è la Cina, una galleria di delizie descritta con profusione di tecnicismi. Mao è un sito archeologico, un monumento, un’opera d’arte, epifania irrinunciabile di una civiltà che ha saputo rivoluzionarsi, che manca «di faziosità e fanatismo», e il cui spirito – secondo Malaparte, anche e soprattutto grazie a Mao – è improntato a un «profondo senso di equilibrio e di umanità».

Convinzione condotta fino all’esito estremo, poiché la Cina e i cinesi sono stati protagonisti anche delle volontà testamentarie dello scrittore, che volle lasciare la celebre villa di Capo Massullo, a Capri – opera dell’architetto Adalberto Libera – agli artisti cinesi che avessero voluto eleggerla quale luogo di creazione e di studio:

«Per un sentimento di riconoscenza verso il popolo cinese e allo scopo di rafforzare i rapporti culturali fra Oriente e Occidente istituisco una fondazione denominata Curzio Malaparte al fine di creare una casa di ospitalità, di studio e di lavoro per gli artisti cinesi residenti in Italia, cittadini della Repubblica Popolare Cinese».

Non andò così, come molto probabilmente non andò nei termini descritti dallo scrittore pratese buona parte del suo viaggio in Cina, e forse anche l’incontro-intervista con Mao Zedong. In fondo «che bisogno c’era di dire subito la verità?».

*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.