L’inchino di Biden a Pechino

In by Simone

Prima il premier britannico David Cameron e poi il vice presidente statunitense Joe Biden. Tutti in fila a stringere la mano al presidente della Repubblica popolare Xi Jinping. Sono di fatto inchini di fronte alla crescita inarrestabile della seconda economia mondiale. Nessuno ormai si può più permettere di contrariarla.
Il kow­tow è l’inchino che in epoca impe­riale i sovrani cinesi impo­ne­vano ai pro­pri visi­ta­tori, quasi sem­pre per­so­naggi pronti a ser­vire e finan­ziare l’imperatore. Una genu­fles­sione fino a toc­care il capo per terra, che signi­fi­cava sot­to­mis­sione da parte dei «bar­bari», gli stra­nieri, al Cen­tro del Mondo, ovvero la Cina.

Nel 1793 l’inviato dell’ impe­ra­tore bri­tan­nico Gior­gio III, Mccart­ney, giunto al cospetto dell’imperatore cinese Qian­long, rifiutò l’inchino: fu man­dato via a mani vuote e ci mise due mesi e mezzo per andar­sene dal paese. Da lì in avanti per la Cina sarebbe arri­vato il «secolo delle umi­lia­zioni», fino al con­tem­po­ra­neo «mira­colo» che ha por­tato il paese a dive­nire una potenza mon­diale.

Oggi – infatti — il «sogno cinese» di Xi Jin­ping, raf­fi­gu­rato nelle vesti pro­prio di Qian­long in una coper­tina dell’Eco­no­mist del mag­gio di quest’anno, riceve l’inchino da tutti, senza nean­che imporlo.

Da Obama quello più fra­go­roso: di fronte all’istituzione della zona di iden­ti­fi­ca­zione aerea nell’area con­tesa con Tokyo, il pre­si­dente ame­ri­cano prima ha sfi­dato Pechino con l’invio nell’area di due bom­bar­dieri, infine ha richie­sto alle pro­prie com­pa­gnie di comu­ni­care i piani di volo alla Cina, legit­ti­mando in pieno la mossa cinese.

Il suo mes­sag­gero Biden, vice pre­si­dente, ha avuto lo stesso atteg­gia­mento nel suo tour asia­tico: a Tokyo ha pro­vato a difen­dere il Giap­pone, ma appena sbar­cato a Pechino si è affret­tato ad incon­trare il Pre­si­dente Xi Jin­ping e ha usato toni ben più mode­rati, sod­di­sfa­cendo i cinesi, che in rispo­sta gli hanno reca­pi­tato un mes­sag­gio greve: bene così, dato che pos­siamo difen­dere mili­tar­mente la zona di difesa aerea.

Si tratta di inchini da Imperi occi­den­tali ormai strac­cioni, rispetto al luc­ci­cante arma­men­ta­rio di Pechino, che si mate­ria­lizza nel debito ame­ri­cano, negli yuan da inve­stire nel mer­cato Made in Usa e negli spazi – pro­ba­bil­mente bri­ciole – che si pos­sono lasciare ai «bar­bari» nel già flo­rido mer­cato interno, che si vor­rebbe trai­nato dal nuovo ceto medio urbano.

Quando la Cina mesi fa — in occa­sione dell’incontro infor­male tra Obama e Xi, inau­gurò con tutta la cam­pa­gna media­tica di cui dispone, lo slo­gan xin xing daguo gua­nxi, «un nuovo rap­porto tra grandi potenze», inten­deva esat­ta­mente que­sto: essere con­si­de­rata ormai – quanto meno — pari agli Usa.

E anche gli eredi dei vec­chi Imperi, come il pre­mier inglese Came­ron, non hanno man­cato di inchi­narsi: il primo mini­stro bri­tan­nico nella visita cinese, ha giu­rato e sper­giu­rato che non incon­trerà il Dalai Lama per non irri­tare Pechino, non una parola sui diritti umani e ha pro­po­sto alla Cina ponti d’oro nella city lon­di­nese.

Rispo­sta dei cinesi: non ci fidiamo, inglesi ed euro­pei sono sub­doli e devono pagare per quanto hanno fatto in pas­sato. Alcuni chia­mano que­sti eventi ricorsi sto­rici, altri le pie­ghe e gli anfratti del mondo in cui si accu­mula il capitale.

[Scritto per il manifesto; foto credits: Asia Society]