Le dimissioni del Dalai Lama e il loro contesto politico

In by Simone

Marzo e il Tibet, come un appuntamento annuale. Un rituale da reiterare, vuoi per la dolorosa memoria storica di un popolo, vuoi per la necessità di mantenere sveglia una causa tutta politica.

Il punto di partenza è sempre il 10 marzo del 1959, data in cui una rivolta popolare condusse il XIV Dalai Lama e il governo tradizionale tibetano in esilio. Da allora sono trascorsi cinquant’anni, in cui il mese di marzo si è riproposto come cornice di rivolte, provocazioni verbali, commemorazioni e repressioni. A Dharamsala il 10 marzo è occasione per manifestazioni dai forti toni nazionalistici. I discorsi annuali del Dalai Lama, pur mantenendo una certa diplomazia, si appellano agli ideali di libertà e condannano qualunque forma di repressione dalla Cina, suscitando l’ostilità del governo cinese. In Tibet, invece, si intensificano i controlli. Negli ultimi due anni, intellettuali e ambientalisti sono stati imprigionati per evitare la ripresa di disordini nei giorni più caldi. Solo due giorni fa la regione è stata chiusa al turismo straniero con dei generici pretesti che chiamavano in causa la sicurezza e la rigidità del clima.

Quest’anno, il “discorso del cinquantaduesimo anniversario della sollevazione nazionale tibetana da parte di Sua Santità il Dalai Lama” non è stato da meno.

Ha apprezzato gli avanzamenti economici e la potenza della Cina, l’apertura del premier Wen Jiabao alle riforme politiche ma ne ha denunciato le gravi restrizioni di libertà, sia in Tibet sia nella Cina propria, l’avanzamento del conservatorismo politico, che lascia pochi spazi a negoziati. Alle consuete pressioni sulla Cina ha però accompagnato una presa di posizione che ha scosso le agenzie di stampa internazionali, annunciando la volontà definitiva da parte del Dalai Lama di abbandonare la scena politica in favore di un capo eletto dalla popolazione esule. La proposta verrà sottomessa all’attenzione del Parlamento tibetano in occasione della prossima riunione plenaria, il 14 marzo.

Non sarà una presa di posizione di facile attuazione e alcune tra le voci più autorevoli del governo tibetano hanno già espresso dello scetticismo di fronte a una rapida transizione politica nella direzione auspicata dal Dalai Lama.

Il contesto in cui ha preso forma il pronunciamento del Dalai Lama è complesso e contiene molteplici angoli visuali. In un mondo che nelle ultime settimane ha riscoperto il valore della volontà popolare contro i governi autocratici, si alza un segnale in contro-tendenza, quasi stonato, in cui la volontà da parte di un capo politico di cedere il potere dopo decenni di leadership non è ascoltata dalla popolazione e dall’opinione pubblica.

Il Tibet è però un caso a parte, con un popolo stretto tra il controllo del Pcc e una comunità esule più che bisognosa di un simboli unitari politici, religiosi, sociali e culturali. Il Dalai Lama è l’essenza di questa unità etnica, riassumendo in sé tutti questi valori. Gode della fiducia dei tibetani dentro e fuori la Cina e della benevolenza dell’opinione pubblica occidentale. Persino in Cina si stanno alzando le voci di chi vuole ascoltarlo.

E allora la domanda non può che rovesciarsi: perché questa presa di posizione da parte del Dalai Lama? Nel suo discorso, egli ha evidenziato come non si tratti di una iniziativa nata dal nulla, ma di un processo graduale, sviluppatosi subito dopo l’esilio, negli anni Sessanta, con la creazione delle prime istituzioni democratiche esuli. Le affermazioni sono storicamente vere, poiché subito dopo l’esilio i valori democratici liberali divennero la cornice ideale entro cui ricreare l’identità politica nazionale tibetana pre-moderna (quella che in Cina è definita come “feudale”) e post-socialista (dopo il difficile ma effettivo decennio di convivenza tra il governo tradizionale tibetano e quello della Rpc). Gli equilibri mutavano e di fronte alle nuove alleanze geopolitiche e allo scacchiere della Guerra fredda, lo sbocco politico scelto dal giovane Dalai Lama fu immediato e probabilmente anche sincero, vista la sua mentalità riformista.

Il processo di democratizzazione non fu però semplice. La retorica politica della comunità esule si è fatta forte della formazione di un’istituzione parlamentare e dell’approvazione di alcuni documenti costituzionali in vista di un accomodamento con il governo cinese; tuttavia, da più parti è stata messa in dubbio la pratica effettiva di un sistema democratico sano nella comunità esule, per via di gravi fenomeni di corruzione e repressione del pluralismo politico. Obiettivo di quest’ultima critica non è tanto il Dalai Lama, è bene precisarlo, quanto l’apparato amministrativo monastico-conservatore che lo sostiene, una forza politica che non vedrebbe di buon occhio facili transizioni politiche.

Questo confronto-scontro all’interno della comunità esule porta alla luce un secondo fattore citato dal Dalai Lama nel discorso del 10 marzo, ovvero la politica di mezzo. Con questa espressione si intende la politica ufficiale finora adottata dal governo in esilio nel trattare con le istituzioni cinesi. A monte di questo approccio politico –per una soluzione non violenta della questione tibetana-, c’è lo stesso Dalai Lama che nel corso degli ultimi quarant’anni ha concentrato tutti i suoi sforzi su un piano diplomatico ispirato da principi democratici, etnicisti, anti-militaristi, ambientalisti e liberali. I colloqui con il governo della Rpc segnarono il momento di massima speranza all’inizio degli anni Ottanta, con la nomina del liberale Hu Yaobang alla segreteria generale del Pcc. Ben presto, però, i negoziati si interruppero per dei problemi che sarebbero risultati insormontabili fino a oggi: obiettivo del Dalai Lama era la ricreazione di un sistema autonomo di ispirazione democratica all’interno di una Cina comunista, in tutta l’estensione del Tibet etnico. Questi due punti sono risultati inaccettabili alla dirigenza cinese fino ai negoziati che hanno anticipato e seguito lo scoppio della rivolta del 2008.

All’indomani della rivolta e con il fallimento dei negoziati, emerse una coscienza diffusa del fallimento della politica della via di mezzo. Da decenni, fra la comunità esule si muoveva un’opposizione a tale politica, che faceva riferimento a diverse organizzazioni indipendentiste e diffidenti verso la protesta non-violenta professata dal Dalai Lama. Nell’autunno del 2008, l’opposizione ottenne la ridiscussione della politica della via di mezzo in parlamento e malgrado questa guadagnò di nuovo la fiducia della maggioranza, si respirò comunque un generale pessimismo sulle reali prospettive politiche, come se si trattasse di un percorso che aveva dato tutto ciò che poteva dare, che andava oramai svanendo in un fallimento. Senz’altro la rivolta del 2008, la più estesa in Tibet nell’epoca comunista, ha rappresentato un punto di svolta, che ha spinto il Dalai Lama a riflettere con maggiore insistenza l’allontanamento dalla scena politica, per altro già concepito da anni.

Un ulteriore fattore è la valenza politica della carica di Dalai Lama, un’arma a doppio taglio che legittima il Tibet come entità politico-culturale unitaria ma che allo stesso tempo potrebbe legittimare altre istituzioni politiche alla morte del Dalai Lama. Negli ultimi mesi, la revisione da parte della Cina dei regolamenti sul riconoscimento delle reincarnazioni del lamaismo tibetano –da ritrovare per legge all’interno del territorio cinese attraverso da organi controllati dal partito- ha consolidato il sospetto che la successione del Dalai Lama aprirà a controversie del tutto simili ai fatti che nel 1995 portarono al riconoscimento di due Panchen Lama (seconda massima carica spirituale del Buddhismo tibetano), uno tibetano e uno cinese. La sfida del Dalai Lama, in tal senso, è il riconoscimento di un’autorità spirituale in grado, almeno potenzialmente, di godere dello stesso riconoscimento che oggi fa a lui capo.

Solo fino a pochi mesi fa tale figura poteva essere identificata nella XVII reincarnazione della guida spirituale della scuola Karma pa: giovane, carismatico, di mentalità aperta e –soprattutto- riconosciuta sia da Pechino che da Dharamsala. Le cose si sono complicate con le accuse mediatiche indiane, con ogni probabilità infondate, che lo hanno accusato di essere una spia cinese. Ciò non toglie che l’uscita di scena politica del Dalai Lama potrebbe rappresentare un modo per evitare in prospettiva dei traumatici vuoti politici alla leadership della comunità esule. Una scelta coraggiosa che non accetti l’assenza di alternative politiche possibili a un leader con oramai 75 anni di vita alle spalle. A tal proposito non va sottovalutata la politica religiosa del Dalai Lama, volta all’attenuazione delle divergenze dottrinali tra le varie scuole buddhiste tibetane, storicamente molto più divise di quello che può sembrare a uno sguardo straniero.

Resta da decifrare l’effettiva percorribilità della transizione politica in Tibet, un fenomeno tutt’altro che scontato, anche se teoricamente potrebbe sembrare “in linea” con i tempi di un mondo che applaude alle rivoluzioni dei gelsomini, un mondo in cui la separazione del mondo politico e religioso è un valore diffuso e la critica ai sistemi autoritari è norma civile accettata. Viene da pensare alla vecchia questione dell’adattabilità del percorso democratico in contesti sociali, politici e culturali molto distanti dall’Occidente. Ma questa, si sa, è un’altra storia.

Mauro Crocenzi sta svolgendo un dottorato in tibetologia presso l’università “La Sapienza” di Roma che ha per oggetto la rappresentazione dell’identità tibetana in Cina

[Foto tratta dal sito ufficiale del Dalai Lama]