L’Aiea dà l’ok per il rilascio in mare delle acque di Fukushima, ma Pechino si oppone

In Relazioni Internazionali, Sociale e Ambiente by Serena Console

Le rassicurazioni del Giappone e dell’Aiea sulla sicurezza e sulla continua revisione dell’operazione non hanno convinto i vicini di casa di Tokyo. Specialmente la Cina

Un milione e trecentomila tonnellate di acqua usata per raffreddare i reattori nucleari della centrale di Fukushima Daiichi saranno riversati nell’Oceano Pacifico. È il passo successivo che il governo giapponese è pronto a compiere probabilmente già da questa estate, dopo il riconoscimento arrivato ieri dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) al piano dell’esecutivo di Tokyo del 2021 di scaricare nell’Oceano le acque radioattive della centrale. Un piano che l’agenzia Onu ha definito “in linea con gli standard di sicurezza internazionali”, in quanto il rilascio delle acque avrebbe un “trascurabile impatto radiologico sulla popolazione e sull’ambiente”, si legge nel rapporto finale presentato ieri dal direttore generale dell’agenzia, Rafael Grossi, al premier giapponese Fumio Kishida. La decisione è il frutto di diverse visite compiute nella centrale da una task force di esperti provenienti da undici paesi, che per quasi due anni ha lavorato alla questione, e di numerosi incontri anche con i dirigenti del gruppo Tepco (Tokyo Electric Power Company), operatore della centrale colpita dalla triplice catastrofe del sisma, dello tsunami e dell’incidente nucleare del marzo 2011. 

Il progetto era stato presentato durante la breve parentesi governativa di Yoshihide Suga, che aveva preso in seria considerazione l’idea della Tepco di scaricare nell’Oceano l’acqua immagazzinata in oltre mille serbatoi presso il sito della centrale, ormai al 98% della loro capacità di stoccaggio. Il piano prevede che la Tepo si occupi di trattare l’acqua reflua per pulirla dalle sostanze radioattive e di farla arrivare dalla centrale alla costa attraverso una conduttura. Ma prima di essere rilasciata in mare, l’acqua sarà trattata attraverso un sistema di purificazione, l’Alps, che rimuove la maggior parte del materiale radioattivo ad eccezione del trizio, un isotopo dell’idrogeno considerato poco pericoloso per l’organismo umano se assorbito in piccole quantità. Un processo non immediato ma graduale, che durerà almeno 40 anni. 

Le rassicurazioni del Giappone e dell’Aiea sulla sicurezza e sulla continua revisione dell’operazione non hanno convinto i vicini di casa di Tokyo. Specialmente la Cina. L’ambasciatore cinese in Giappone, Wu Jianghao, ha voluto ribadire la contrarietà della Cina, suggerendo in alternativa un metodo di trattamento scientifico “sicuro, trasparente e convincente” che altre nazioni possano accettare. Il diplomatico ha perfino messo in dubbio la capacità stessa dell’agenzia dell’Onu di valutare l’impatto a lungo termine dell’acqua trattata sull’ecosistema marino. Quello dell’Aiea, si legge invece in una nota del ministero degli Esteri cinese, è “un rapporto frettoloso” e le conclusioni degli esperti dell’agenzia dell’Onu “sono relativamente limitate e unilaterali”. Il governo cinese ne approfitta per sferrare una stoccata ancora più dura all’esecutivo giapponese, accusandolo di volere utilizzare il mare come una fogna e paventando ogni tipo di conseguenza. 

Non mancano le critiche dalla Corea del Sud – reduce di un disgelo diplomatico con Tokyo – dove il presidente Yoon Suk Yeol è finito nel mirino dell’opposizione che lo accusa di non difendere la salute della popolazione. Al termine della visita in Giappone, Grossi andrà anche in Corea del Sud per fornire informazioni al governo riguardo al rapporto. Cina e Corea del Sud continuano a vietare l’importazione di prodotti ittici dall’area intorno all’impianto di Fukushima, citando problemi di sicurezza. Una decisione che ha innescato le proteste dei pescatori giapponesi, che temono un danno irreparabile di immagine per il loro prodotto. A distanza di più di 10 anni dal disastro di Fukushima, i problemi per Tokyo sembrano non trovare una soluzione. 

Articolo di Serena Console

[pubblicato su il manifesto]