La via marittima che bussa ai nostri porti

In Cina, Economia, Politica e Società by Redazione

“Il 90% di Tutto”, come scriveva la giornalista Rose George. Qualsiasi cosa stiate consumando, abbiate addosso e anche mangiate, è probabile sia partito da un porto asiatico. Cinese, soprattutto. 9 dei primi 10 porti mondiali sono infatti in in Asia: l’altro è in Medio Oriente, a Dubai. Rotterdam, all’11esimo, è il primo degli europei. Era sesto fino al 2004. Non è crollato perché ha diminuito le proprie movimentazioni. Anzi. È cresciuto del 50% in meno di 15 anni.

E allora cos’è successo? Che gli altri – i porti asiatici – sono cresciuti del 100, 200, in alcuni casi del 300%. Shanghai, Shenzhen, Ningbo. Hong Kong che è l’unico porto cinese che è diminuito in quanto a movimentazione – e non è un caso, perché da quanto è passato dal controllo britannico a quello cinese il piano è quello di limitare fortemente la sua influenza, per poter controllare meglio la scomoda ex colonia ribelle. Ma le nuove forze, anche marittime, sono tutte ad est.

A contare sono i TEU, i twenty-foot equivalent unit, ovvero il numero di container movimentati. Non certo per il loro valore. Ma l’indicatore è significativo anche in termini assoluti. La bilancia commerciale cinese è in attivo con tutti i Paesi al mondo tranne la Corea del Sud. 2.500 mld di dollari di export a fronte di circa 1.500 di import.

Fino a qualche anno fa anche la Germania figurava col segno ‘+’ tra valore di esportato e importato nei confronti della Cina, ma il rallentamento del mercato domestico nel settore automotive del Dragone e la competizione sempre più feroce dei brand cinesi anche in questo campo ha eroso la principale fonte di export tedesco.

I cinesi esportano principalmente componentistica elettronica. Mentre importano molti circuiti – ad ulteriore testimonianza che la Cina si sta votando verso un mondo sempre più hi-tech –, ma anche petrolio e soia.

Ma fare i conti sul valore dell’export e dell’import presenta delle trappole: in alcuni casi la contabilizzazione del prodotto viene fatta a ‘valore pieno’, anche se il valore aggiunto che effettivamente rimane sul campo in Cina è tutto sommato relativamente basso. È il caso della Apple con gli iPhone, ad esempio.

Per la Cina, questo afflato marittimo è cosa piuttosto recente. Storicamente, l’Impero di Mezzo si è sempre concentrato sui suoi confini terreni interni, più che sulle sue coste. Atteggiamento che è cambiato sensibilmente con la Belt and Road Initiative, che guarda alla rotaia ma anche – e parecchio – al mare.

La Nuova Via della Seta poggia molto sui binari ferrati stesi da Pechino in ogni angolo più remoto dell’Eurasia, ma l’altra stampella è in realtà un mezzo marinaio, che vuole sfruttare questo dominio marittimo, e renderlo ancora più schiacciante.

Non è un caso che i Cinesi abbiano attivato una fase epocale di “Shipping shopping” prima a Gibuti, poi in altri snodi strategici tra cui soprattutto il Pireo, e pare a breve anche in Italia (Genova e Trieste in primis). L’accerchiamento è pianificato: e con la consistenza dei programmi politico-economici cinesi, non è davvero più questione di se, ma solo di quando.

Di Filippo Lubrano

* Filippo Lubrano, ingegnere, giornalista pubblicista, consulente e formatore di sviluppo business su mercati asiatici. 8 anni nel gruppo Fiat sui mercati del sud-est asiatico in Sales & Marketing, ha poi lanciato una startup attiva nel settore food del mercato americano, prima di fondare la società di consulenza Asialize.org.