mar cinese meridionale

La tragedia ambientale della competizione nel Mar cinese meridionale

In Relazioni Internazionali, Sociale e Ambiente by Sabrina Moles

La competizione nel Mar cinese meridionale non è solo una questione di interessi politici ed economici: una panoramica dei danni ambientali causati dalla concentrazione di attività antropiche nell’area e la scarsità di risorse come acceleratore di conflitti tra gli attori della regione. Di Sabrina Moles, pubblicato in collaborazione con 9DASHLINE

È il 2016 e la Cina è stata condannata dalla Corte permanente di arbitrato (Cpa) dell’Aia per aver violato almeno sei norme contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos). Il processo era inziato nel 2012, quando il governo delle Filippine decise di portare a giudizio la Repubblica popolare cinese per le sue attività nell’area del Mar cinese meridionale. Le rivendicazioni della Cina non sono cambiate molto da allora: Pechino continua ad affermare la propria sovranità su un’area molto più vasta di quanto preveda l’attuale diritto internazionale e reclama proprio il diritto di operarvi con i suoi mezzi civili e militari. Sono poche le prove fornite a sostegno della tesi cinese, tra cui le note rivendicazioni storiche basate su una mappa del 1949 in cui compare la famigerata linea a nove trattini che evidenzia l’area sotto la giurisdizione di Pechino.

La sentenza di 479 pagine sulla disputa territoriale tra Pechino e Manila contiene un altro elemento raramente evidenziato nelle denunce passate: il degrado ambientale. Secondo la Corte, infatti, la Cina ha causato “gravi danni all’ambiente marino” mentre portava avanti le sue attività commerciali e militari nel Mar cinese meridionale. Nel 2022, questo problema non è più un fattore marginale in una situazione tanto complessa, nella quale cui si sovrappongono dispute territoriali, scarsità di risorse ittiche e una crescente domanda di fonti fossili.

Gli scienziati concordano sul fatto che la condivisione delle risorse naturali sarà sempre più difficile in futuro a causa dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento. Secondo il sesto rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, “senza una trasformazione, è probabile che le disuguaglianze globali aumenteranno […] e che i conflitti tra le diverse giurisdizioni possano emergere e aggravarsi”. Nel Mar cinese meridionale si scontrano tanti interessi diversi, che danno luogo a numerose sovrapposizioni territoriali tra le attività di pesca intensiva, nonché alla costruzione di isole artificiali con lo scopo di affermare la propria presenza e i propri diritti sulle risorse presenti. In un contesto di questo tipo non è solo probabile un aumento significativo degli scontri tra attori battenti bandiera dei paesi confinanti, ma emerge chiaramente la minaccia ambientale che porta con sé l’intensificarsi delle attività economiche e securitarie nel Mar cinese meridionale.

Opportunità e rischi: i danni della pesca illegale nel Mar cinese meridionale

Con un’area di circa 3,5 milioni di chilometri quadrati, il Mar cinese meridionale è una parte essenziale dell’economia di dieci paesi asiatici (Brunei, Cambogia, Cina, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Taiwan, Thailandia e Vietnam). Più di 5 mila miliardi di dollari di merci circolano in questa regione, mentre l’industria ittica nel Pacifico e nel Mar cinese meridionale è stata stimata a circa 100 miliardi di dollari. Le tensioni nel Mar Cinese Meridionale stanno creando un pericoloso modello di competizione nelle relazioni tra i paesi coinvolti. Le rivendicazioni di sovranità, insieme alla crescente domanda nazionale di cibo, risorse energetiche e profitti, definiscono un insieme di priorità che sempre più spesso ignorano l’impatto ambientale di queste attività.

La pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn) è molto diffusa in quest’area, una tendenza che potrebbe aumentare a causa della competizione economica e del crescente impoverimento della fauna marittima. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), ogni anno vengono pescati illegalmente 26 milioni di tonnellate di pesce e ben otto paesi asiatici figurano nella top 20 nell’indice mondiale della pesca Inn. Le attività di pesca illegali nel Mar cinese meridionale sono in aumento, intrecciate con le attività militari, le rivendicazioni marittime e la scarsità di pesce. Nell’area il totale degli stock ittici si è ridotto del 70-95% dagli anni ’50, mentre i tassi di cattura sono diminuiti del 66-75% negli ultimi 20 anni.

In questo contesto, i pescherecci cercano di sfruttare ogni centimetro della zona economica esclusiva (Zee) nazionale, fissata a 200 miglia nautiche dalla terraferma. Tuttavia, la sovrapposizione delle rivendicazioni dei paesi confinanti nella Zee sta portando alla competizione e persino al conflitto. I pescherecci vietnamiti, ad esempio, sono stati attaccati più volte da navi cinesi. In alcuni casi, l’aggressione si è conclusa con la distruzione dell’imbarcazione stessa, come nell’aprile 2020, quando una nave cinese ha colpito e affondato un peschereccio vietnamita con otto persone a bordo.

La forte competizione per le risorse idriche si traduce spesso nell’utilizzo di strumenti e modalità illegali per aumentare il tasso di cattura e, di conseguenza, i profitti. Le denunce avviate dalle Ong della zona riportano come molti pescherecci utilizzino la dinamite, una tecnica di pesca diffusa ma estremamente dannosa, benché ancora ampiamente accettata in molti paesi. Altre tecniche estremamente inquinanti includono l’uso del cianuro, che distrugge l’ambiente e ha conseguenze a lungo termine sulla vita marina. Un team di ricerca guidato dal dottor Wilfredo Y. Licuanan, biologo marino dell’Università De La Salle, nelle Filippine, ha stimato che occorrono più di 38 anni, in assenza di interferenze umane, per ottenere un recupero del 50% delle barriere coralline colpite da queste sostanze.

Tuttavia, è difficile – se non impossibile – tracciare tutte queste attività. Secondo la legge, ogni imbarcazione dovrebbe dotarsi di un sistema di identificazione automatica (Ais), un dispositivo di sicurezza che rivela la posizione esatta dell’imbarcazione, insieme al nome, alla nazionalità e alle dimensioni. Ma poche imbarcazioni rispettano questo requisito. Ad esempio, come osserva Milko Mariano Schvartzman di Oceanosanos, che da anni osserva le manovre dei pescherecci asiatici (soprattutto cinesi e taiwanesi) nelle acque del Pacifico sudoccidentale, “alle Galapagos abbiamo visto che solo la metà delle navi presenti aveva l’Ais acceso”. Il problema della localizzazione non è una questione banale: “Senza Ais è necessario ricorrere ai satelliti, che non sono abbastanza precisi al punto da fornire prove concrete sullo stato delle attività di pesca in una determinata area”.

La lotta per le risorse e la terra

Il nazionalismo energetico nell’area è profondamente intrecciato con le rivendicazioni di sovranità. Secondo l’Agenzia statunitense per l’informazione sull’energia, il Mar cinese meridionale contiene circa 11 miliardi di barili di petrolio e circa 5000 miliardi di metri cubi di gas naturale – una fonte di energia auspicabile per le economie asiatiche in crescita. La domanda di energia nel Sud-est asiatico, infatti, è aumentata dell’80% solo negli ultimi vent’anni e l’intera regione dovrebbe guidare la domanda globale di petrolio entro il 2023.

Mentre i paesi del Sud-Est asiatico lottano contro la crescente domanda di energia, anche la Cina si è lanciata alla ricerca di nuove risorse energetiche per sostenere la propria economia. Come afferma il Center for Naval Analyses in un rapporto sulle tensioni Cina-Vietnam nel Mar cinese meridionale, “la Cina ha utilizzato la sua marina e le sue agenzie civili di applicazione della legge marittima per interferire direttamente con le attività di esplorazione e sfruttamento delle risorse vietnamite e filippine all’interno delle rispettive Zee nel Mar cinese meridionale”. Anche le navi malesi hanno subito intimidazioni, come accaduto nel 2019, quando due navi da rifornimento offshore sono state accerchiate da alcune navi cinesi.

Il traffico marittimo nella regione ha conseguenze significative per l’ambiente. Il Mar cinese meridionale è un hotspot per la biodiversità, con 600 specie di coralli, 3.000 di pesci e 1.500  di spugne. Anche al di là del traffico navale, più attività umane si svolgono in mare, maggiore è l’impatto sull’ecosistema circostante. Ciò si estende anche alle trivellazioni di petrolio e gas: le piattaforme petrolifere offshore porta al rischio di contaminazione per negligenza o per cause esterne, mentre le esplorazioni per le risorse energetiche hanno diversi effetti collaterali. “Le tecniche sismiche utilizzate per la ricerca di petrolio sotto i fondali oceanici”, come si legge in un’analisi pubblicata dall’Energy Information Administration statunitense, “possono danneggiare gravemente pesci e mammiferi marini”. Non è scontato, inoltre, che gli attori regionali agiscano utilizzino le tecnologie di ultima generazione e maggiormente in linea con gli standard di sostenibilità.

Infine, anche la trasformazione di banchi di sabbia in veri e propri terreni è diventata la norma nel modo in cui la Cina spinge le sue rivendicazioni marittime nel Mar cinese meridionale. Dal 2013, l’Asia Maritime Transparency Initiative ha monitorato almeno 1.200 ettari di nuovi terreni costruiti da aziende cinesi intorno alle caratteristiche emergenti delle isole Paracel, delle isole Spratly e della secca di Scarborough. Il dragaggio disturba l’ambiente, modificando i flussi acquatici e spazzando via i microrganismi essenziali per le barriere coralline e la vita sott’acqua. Le attività di costruzione sopra tali “isolotti”, come sta avvenendo nel caso dei territori rivendicati da Pechino, provocano inevitabilmente un aumento dell’inquinamento, con detriti e rifiuti gettati in mare o semplicemente bruciati.

Responsabilità e dialogo

Le tensioni nel Mar cinese meridionale stanno creando un new normale di intendere la competizione nelle relazioni tra i paesi della regione. Le rivendicazioni di sovranità, insieme all’urgente richiesta di cibo, risorse energetiche e profitti, definiscono una serie di priorità che sempre più spesso trascurano i danni ambientali.

La diplomazia climatica e ambientale può offrire alcune soluzioni ai problemi politici ed ecologici che si sovrappongono nel Mar cinese meridionale. Per esempio, uno dei più recenti eventi significativi che ha riunito esperti e funzionari di tutto il mondo, la Conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani tenutasi a Lisbona nel giugno di quest’anno, ha cercato di rendere i paesi responsabili delle loro attività marittime, con i partecipanti che hanno promesso di impegnarsi in circa 700 azioni nel prossimo futuro. Tra questi, la Cina ha promesso di lanciare 31 progetti per la protezione dell’ambiente marino. Nel frattempo, l’Organizzazione mondiale del commercio ha raggiunto un accordo storico per limitare il sostegno finanziario alle attività dannose di pesca intensiva. Tuttavia, chiedere ai paesi impegni significativi non è facile. Dopo anni di negoziati, le Nazioni Unite stanno ancora cercando di coinvolgere tutte le nazioni nella stesura di un trattato per la conservazione della biodiversità, con scarsi risultati.

Un’altra soluzione, come suggerisce il giornalista James Borton, è quella di spingere sulla diplomazia scientifica. Questo tipo di cooperazione “aiuta a promuovere la costruzione della fiducia tra le parti, direttamente e indirettamente, coinvolte nella disputa sul Mar cinese meridionale” perché “il monitoraggio ambientale offre un contesto in cui i paesi possono esprimere la loro reale percezione della regione senza essere influenzati da fattori nazionalistici, politici o economici come la sovranità o gli obiettivi di politica estera”. In altre parole, l’appello a salvare l’ambiente può innescare la cooperazione, poiché si tratta di una questione di sicurezza non tradizionale che è nell’interesse comune di ogni paese collegato. La crisi climatica non è più una minaccia invisibile, ma una minaccia attuale per la vita umana e, di conseguenza, per l’economia e la politica. Il Mar cinese meridionale presenta una “tragedia dei beni comuni”, in cui gli interessi individuali si scontrano con risorse condivise sempre più scarse. La domanda principale ora è se i governi saranno disposti a fare un passo indietro rispetto agli interessi nazionali strettamente definiti per sostenere i bisogni di molti.

Di Sabrina Moles