La mia India – Suicidarsi nella società rispettabile

In by Simone

Il suicidio della giovane attrice Jiah Khan, infelice e depressa per una storia d’amore finita male, ha scatenato la caccia al capro espiatorio della società indiana. L’ex fidanzato di Khan, per l’India benpensante, è il colpevole. Reazione che Annie Zaidi bolla come una comoda scappatoia.
Spesso ho sentito dire: “Si viene al mondo solo con il proprio corpo, e lo si lascia allo stesso modo”. Per dire, non attaccarti troppo alle cose che possiedi. Ma finché si vive, di alcune cose se ne prova il bisogno. Il proprio desiderio di vivere è pari alla quantità di cose che si hanno – soldi, lavoro, amore, amici, libertà.

Indirettamente, le nostre leggi prendono atto di questo fatto. Ecco perché ogni società, alla fine, deve concedere una qualche forma di divorzio. Non c’è cultura che possa tollerare troppo a lungo una situazione di infelicità di massa. Sempre per lo stesso motivo i governi devono fornire un salario minimo, garantire il diritto al lavoro o sussidi di disoccupazione.

In una cultura umana si garantisce la tolleranza di coloro che hanno sofferto. Persone attanagliate da livelli estremi di stress – che abbiano perso i propri mezzi di sostentamento, la salute, o abbiano subito violenze psicologiche per troppo tempo – possono perdere il desiderio di vivere.

A volte uomini d’affari preferiscono farla finita piuttosto che reinventarsi in una condizione di povertà. Alcuni contadini si suicidano perché non riescono a sopportare la perdita della propria terra, o della propria dignità. Altri si ammazzano perché si sentono intrappolati in un matrimonio infelice e non ne vedono una via d’uscita.

In una società rispettabile vengono date delle alternative. I contadini non perdono la propria terra se un anno il raccolto non va bene. Essere senzatetto o disoccupato non necessariamente deve significare diventare bersagli di violenza ad ogni incrocio. Un divorzio non deve tradursi in abbandono da parte della propria famiglia.

In una società che non merita rispetto, si è obbligati a vivere perché chi ti circonda non riconosce il tuo dolore, né vuole sforzarsi di trovare soluzioni a lungo termine. E’ molto più facile criminalizzare un suicida. Descrivere il suicidio come un “peccato contro Dio”.

Ma criminalizzare non aiuta (e a Dio, ovviamente, non gliene importa abbastanza per intervenire). Se qualcuno è profondamente infelice e inizia a sentirsi inerme davanti alla vita, quella persona si arrenderà. Perfino gli animali smettono di mangiare quando sono infelici. Ma il suicidio, come società, ci fa sentire colpevoli e turbati. Tutti hanno dei problemi, ci diciamo, se tutti mollano appena provano dolore, cosa ne sarà della famiglia? E della nazione?

Senza contare che le famiglie (e i governi) investono sul singolo. Anche dal punto di vista socio-economico, il suicidio è sostanzialmente uno spreco di risorse. Così cerchiamo di prevenirlo o almeno di individuare una causa, indicare il responsabile. Una società che non merita rispetto va a caccia del capro espiatorio, una vittima sacrificale contro la quale tutti noi possiamo sfogarci. Facciamo leggi in materia di “istigazione al suicidio”.

Una ragazza di 25 anni si è arresa, non aveva più alcuna speranza di ritrovare la felicità. Aveva sofferto, forse era stata aggredita, ma non ne ha parlato apertamente. Potrebbe aver pensato che nessuno le avrebbe creduto e che la sua carriera si sarebbe interrotta. O peggio, l’avrebbero colpevolizzata. Viveva in una società dove qualsiasi accenno di liberazione viene travisato in un invito alla violenza sessuale.

Una società dove gli scapoli, specie se artisti, fanno fatica a trovare un appartamento in affitto. Dove i rappresentanti democraticamente eletti se ne escono con bestialità contro le vittime di stupro. Dove, nonostante statistiche allarmanti sull’abuso di minori, le scuole non permettono seminari sulla condizione delle donne. Dove funzionari operano test della verginità prima di permettere lo svolgimento di un matrimonio. Dove, se lei fosse sopravvissuta al tentativo di suicidio, avrebbe rischiato l’infrazione della legge.

E ce la prendiamo col ragazzo che non voleva prendersi la responsabilità della sua felicità, che non è stato in grado di curarle le ferite che aveva dentro. Questa è la scappatoia, dopo tutto. Perché se ci accorgessimo di dove veramente risiede la colpa di quello che è successo, dovremmo ammettere che il modo nel quale viviamo oggi merita di andare in frantumi.

Gli stupratori dovrebbero essere punti. Le donne dovrebbero essere liberate. E la nostra società non è abbastanza rispettabile per farlo.

[Articolo originale pubblicato su Daily News and Analysis]

*Annie Zaidi scrive poesie, reportage, racconti e sceneggiature, non necessariamente in quest’ordine. Il suo libro I miei luoghi: a spasso con i banditi ed altre storie vere è stato pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia.