La democrazia secondo Xi Jinping

In Cina, Economia, Politica e Società by Lorenzo Lamperti

“Nuova democrazia”. Mao Zedong chiamava così il futuro che si era immaginato per la nascente Repubblica Popolare Cinese. E “democrazia” è un termine che la Cina non ha mai smesso di utilizzare per descrivere se stessa. Lo ha fatto spesso Xi Jinping, che ne ha forgiato la sua versione sin dall’alba del suo primo mandato presidenziale, descrivendo un processo consultivo e deliberativo intrapartitico che si poggia su un pilastro retorico della millenaria cultura cinese: la meritocrazia. All’alba della rincorsa al terzo mandato, Xi torna a esplorare la sua concezione di democrazia “con caratteristiche cinesi” durante una conferenza centrale sul lavoro e sul ruolo delle assemblee popolari e alla presenza dell’intero comitato centrale del partito comunista. Non un caso, visto che saranno le stesse istituzioni del partito chiamate a conferirgli la prosecuzione dell’incarico. Xi ha definito la democrazia un “valore condiviso dall’umanità” e “un principio chiave sostenuto incrollabilmente dal partito e dal popolo cinese”. Un valore condiviso, eppure mutevole e non statico. Perché “non è democratico” giudicare tutti i sistemi politici seguendo un solo standard, né esaminarli con una “prospettiva monotona”. Messaggio nemmeno troppo implicito rivolto all’esterno, in particolare a occidente e Stati Uniti, ai quali Xi dice che stabilire “se un paese è una democrazia oppure no” è compito della gente di quello stesso paese e non di “un piccolo numero di estranei che punta il dito contro questo o quello”. Una posizione già espressa alla 76esima Assemblea generale delle Nazioni Unite, quando Xi ha invitato il mondo ad “accogliere diversi percorsi di modernizzazione”.

L’amministrazione Biden, contrariamente a quella Donald Trump, insiste molto sul tema dei “valori democratici condivisi” nel tentativo di rafforzare o lanciare piattaforme multilaterali che Pechino vive come tentativi di contenere il suo sistema. Un sistema che ritiene di successo e che è sempre più pronta a rivendicare con orgoglio, mettendolo a confronto con le disfunzionalità delle democrazie liberali. La democrazia “deve risolvere i problemi del popolo”, ha detto Xi. “Se le persone si risvegliano solo quando votano e restano dormienti dopo aver votato, se gli si danno canzoni e danze durante la campagna ma non hanno voce in capitolo dopo le elezioni, quella democrazia non è una vera democrazia”. Il sistema cinese, invece, garantirebbe al popolo la possibilità di esprimere i propri interessi e necessità. Il tutto, però, tutelato dalla figura sempre più pervasiva del partito, il cui compito è garantire in primo luogo la stabilità, perché “la storia e la realtà hanno dimostrato che un paese è stabile se il suo sistema è stabile e un paese è forte se il suo sistema è forte”, dice Xi. Convinzioni e narrativa alimentate da episodi come l’assalto a Capitol Hill, messi in implicito confronto con l’avvicinamento al ventesimo Congresso: ordinato, e possibilmente anche giusto. E per essere più giusto, il sistema deve ridurre la disparità, redistribuire la ricchezza ed evitare polarizzazioni e populismi. Significativo che, a un giorno di distanza dal discorso sulla democrazia, su Qiushi sia uscita la trascrizione integrale di quanto detto da Xi lo scorso 17 agosto sulla “prosperità comune”. Un nuovo obiettivo da raggiungere “entro la metà di questo secolo”, insieme a quello del completamento del ringiovanimento nazionale. Rafforzarsi all’interno e rendersi impermeabili all’esterno, in una doppia circolazione nel quale la regolarità del flusso è garantita dal partito, cardine di quella che vorrebbe il mondo riconoscesse come democrazia nuova.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su Il Manifesto]