La corsa del Giappone alle materie prime

In Asia Orientale, Relazioni Internazionali by Marco Zappa

Con la fine dell’occupazione statunitense, il primo governo giapponese autonomo guidato dal conservatore liberale Yoshida Shigeru, Tokyo decise di adottare una politica di riduzione della spesa militare per concentrare le risorse nella ricostruzione economica del paese.

Negli stessi anni, l’impegno militare in Corea e preoccupazioni strategiche legate all’avanzata comunista in Indocina spinsero l’amministrazione Truman ad aumentare le quote di aiuti alla regione per favorire l’acquisto di beni di consumo prodotti in Giappone.

Per i decisori di Washington, questa strategia commerciale fondata sulla fornitura di tecnologia e beni capitali americani al Giappone, produzione di beni di consumo nell’arcipelago e la loro esportazione verso il Sudest asiatico in cambio dell’estrazione di materie prime, avrebbe dovuto disincentivare Tokyo a cercare rapporti commerciali con la Repubblica popolare cinese.

La strategia fu di fatto imposta al governo Yoshida che desiderava invece ristabilire relazioni commerciali proficue con Pechino vista l’impossibilità dei paesi del Sudest asiatico di assorbire le esportazioni giapponesi. Tuttavia, grazie all’intermediazione statunitense, tra il 1949 e il 1950, Tokyo fu in grado di assicurarsi quantitativi di riso importato da Myanmar e Thailandia in cambio di tessuti e macchinari.[1]

Intanto, parallelamente alla firma del Trattato di San Francisco nel 1951, Tokyo avviò negoziati bilaterali con i paesi interessati dall’avanzata militare sul continente del decennio precedente per il versamento di riparazioni di guerra conditio sine qua non per la ripresa delle relazioni diplomatiche. In questo processo, durato fino alla metà degli anni ’60, Tokyo versò a paesi del Sudest asiatico (in particolare Myanmar, Indonesia, Filippine, Vietnam del Sud, Cambogia, Laos, Malaysia e Singapore) un totale di 1,15 miliardi di dollari in riparazioni e altri 737 milioni di prestiti.

L’India, in polemica con gli Stati Uniti per l’occupazione militare delle Ryūkyū, la non restituzione di Taiwan alla Cina, e delle isole Curili e Sakhalin all’Unione sovietica, non firmò il Trattato. Con questa decisione, il governo di Nuova Delhi sottolineò il suo non allineamento nel nascente regime di Guerra fredda, firmando, l’anno successivo, un trattato di pace “alla pari” con Tokyo in cui rinunciò alle proprie richieste di riparazioni di guerra.

È interessante notare come lo stesso Jawaharlal Nehru, che nel 1937 aveva organizzato un boicottaggio dei prodotti giapponesi (in particolare cotone) per protestare contro l’espansione delle operazioni militari di Tokyo in Cina e inviato al governo nazionalista aiuti sanitari, optò per una riconciliazione fatta anche di gesti simbolici, quali la promessa di sostenere lo sviluppo industriale ed economico del Giappone esportando materie prime (in particolare minerali ferrosi) e invitando gli atleti giapponesi ai Giochi asiatici di Nuova Delhi del 1951.

Per il primo ministro indiano il paese arcipelago rappresentava un caso esemplare di successo economico fondato quasi esclusivamente sull’investimento in capitale umano. Contrariamente ad altri paesi asiatici, che vedevano con sospetto il riemergere del Giappone sugli scenari regionali, seppur solo in termini economici, dal punto di vista del leader indiano, Tokyo avrebbe distolto l’attenzione della Cina dalle regioni di confine, in particolare a seguito dell’invasione del Tibet del 1950-1951.[2]

Nel 1954, Tokyo partecipò al Piano Colombo, fornendo aiuti economici a India e Pakistan e, l’anno seguente, alla Conferenza afroasiatica di Bandung. In tali contesti, furono raggiunti accordi sui primi investimenti esteri diretti giapponesi in Sudest asiatico, in particolare, nell’estrazione di minerale ferroso in Malaysia e Filippine. Nonostante le riserve del Ministero degli Affari esteri (MOFA) e degli Stati Uniti che temevano un possibile allineamento del Giappone con paesi comunisti, il rappresentante giapponese Takasaki Tatsunosuke fu abile nell’orientare l’agenda della conferenza su temi economici e firmò per conto del governo la dichiarazione conclusiva dei “Dieci principi per la Pace”, in cui veniva sottolineata l’importanza del commercio e di relazioni amichevoli al di là delle divergenze ideologiche.[3]

Ciononostante, fino alla fine degli anni Cinquanta, di fatto, Tokyo mantenne una politica di sviluppo con il Sudest asiatico “tramite” gli Stati Uniti, e quindi coerente con gli obiettivi diplomatici di Washington.[4]

 

[1] Nester, William. Japan and the Third World: Patterns, Power, Prospects. Londra: Palgrave, 1992, p. 121; Cha, Victor. Powerplay: The Origins of the American Alliance System in Asia. Princeton University Press, 2016, pp. 183-184.

[2] Pardesi, Majeet. “Evolution of India-Japan Ties: Prospects and Limitations” in India and Japan: Assessing the Strategic Partnership, a cura di Rajesh Basrur e Sumitha Narayanan Kutty, Londra: Palgrave, 2018, pp. 16-19.

[3] Itoh, Mayumi. Pioneers of Sino-Japanese Relations: Liao and Takasaki. Londra: Palgrave, 2012, pp. 98-101.

[4] Suehiro, Akira. “The Road to Economic Re-entry: Japan’s Policy toward Southeast Asian Development in the 1950s and 1960s”. Social Sciences Japan Journal 2, 1, 1999, p. 94.

Tratto da Il Giappone nel sistema internazionale (2020, Cafoscarina), pp. 177-179

Di Marco Zappa*

*Docente a contratto di lingua giapponese presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha conseguito un dottorato in Studi sull’Asia e sull’Africa presso la stessa università in cotutela con l’Università Humboldt di Berlino, analizzando i rapporti di cooperazione internazionale tra Giappone e paesi in via di sviluppo del Sudest asiatico come il Vietnam. Si interessa di relazioni internazionali dell’Asia orientale, politiche di sviluppo internazionale e politica giapponese contemporanea. È inoltre giornalista pubblicista e ha collaborato per diversi anni con China Files.