La controversa vita di Ngapo Ngawang Jigme

In by Simone

Il 23 dicembre 2009 Ngapo Ngawang Jigme è passato definitivamente dalla vita ai libri di storia, lasciando aperta ogni contesa sulla sua vita. Per molti è stato il principale collaborazionista dei comunisti cinesi, un fantoccio che ha servito la dirigenza di Pechino dal 1950 ad oggi e che consegnò su un vassoio d’argento il Tibet all’occupazione cinese. A poche ore dalla sua morte, l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xīnhuá lo ha salutato come un «grande patriota, famoso attivista sociale, eccellente figlio del popolo tibetano, prominente voce guida nella questione nazionale cinese ed intimo amico del Partito Comunista Cinese».

Non è stato sempre così, e viene spontaneo ricordare quando negli anni Sessanta, con l’incedere della Rivoluzione Culturale, solo l’intervento del partito lo salvò dallo slancio rivoluzionario delle guardie rosse, garantendogli un salvacondotto che lo mettesse al riparo dagli attacchi rivolti nel nome del radicalismo ideologico e dell’irriverenza verso il patrimonio culturale delle minoranze etniche. Traditore della causa tibetana per gli indipendentisti esuli e troppo moderato per i nuovi rivoluzionari. All’epoca, solo l’alta dirigenza del partito si rese conto che Ngapo non poteva essere sacrificato all’ardore rivoluzionario, rappresentando l’ultimo strumento di un certo prestigio in grado di legittimare la presenza cinese in Tibet, dopo l’esilio del Dalai Lama nel 1959 e la caduta del X Panchen Lama nel 1964.

Nei libri di storia, Ngapo fa la sua prima comparsa nel 1950, quando le truppe cinesi entrarono in Tibet per ultimarne la “liberazione”. Allora ricopriva la carica di comandante in capo delle truppe tibetane nella provincia orientale di Chamdo (cinese: Chāngdū). I suoi soldati si arresero subito all’esercito comunista, evidenziando tutta la superiorità tecnico-strategica dell’Esercito Popolare di Liberazione (EPL). Nel 1951 era invece a Pechino come capo delegazione tibetano, incaricato dal governo di Lhasa di negoziare una pace impossibile con le autorità comuniste. Fu allora che pose la firma sull’Accordo in diciassette punti. Si è detto che il Dalai Lama rimase allibito nel leggere i termini dell’accordo, che condannò di fatto il Tibet all’occupazione militare. Si è detto anche come i delegati tibetani durante le trattative ricevettero forti intimidazioni che li costrinsero alla firma. Non poté essere altrimenti, gli emissari tibetani erano a Pechino per negoziare un accordo in cui le condizioni vennero dettate da un vincitore a un vinto. Gli inviati non poterono che sperare nella buona fede dei comunisti cinesi e negli appelli alla tolleranza culturale, che contraddistinsero le politiche di Pechino negli anni Cinquanta.

Ngapo entrò così a far parte, al fianco del Dalai Lama, della nuova classe politica tibetana, divisa tra le pressioni riformiste che giungevano dall’alto e la necessità di tutelare la cultura tibetana. I due agirono tra fenomeni di malcontento e ribellioni, uniti nella volontà di scendere a compromessi con i comunisti per evitare repressioni diffuse e gestire il cambiamento al meglio delle loro possibilità. La rivolta del 1959 separò però i due leader, il Dalai Lama scelse la via dell’esilio, divenendo il simbolo di un popolo che si diceva oppresso. Ngapo invece rimase e si impegnò in quella figura scomoda di mediatore. Esaltato dalla propaganda comunista come un esempio di riformista illuminato, in grado di rinunciare ai vecchi privilegi e ai suoi possedimenti, derivati dalla sua appartenenza alla classe aristocratica tibetana. Traditore per quei tibetani che videro il suo ingresso nell’establishment e furono testimoni della sua condizione privilegiata, staccata dalle sorti della popolazione ridotta in povertà.

Figure come Ngapo e il X Panchen Lama scelsero una via difficile e semplice allo stesso tempo. Scendere a patti con i vincitori è semplice, meno lo è voltare le spalle alla propria identità, soprattutto perché inizialmente essi credettero di poter riuscire in quel compito di tramite, in dovere di evitare la distruzione di una cultura e di favorire lo sviluppo socio-economico del Tibet. Per portare avanti questa missione dovettero scendere a patti con la propaganda, prestarsi a condanne della vecchia società, stroncare ogni forma di malcontento dei tibetani, definito “reazionario”, “violento” o “contro la stabilità”. Accettare di ridurre vere e proprie rivolte etniche a fenomeni di instabilità guidati da pochi facinorosi. Fino ad essere travolti ugualmente dal radicalismo della Rivoluzione Culturale, almeno nel caso del X Panchen Lama.

Per quei politici tibetani che erano al potere a cavallo del 1950 non fu facile capire, ma dovettero ugualmente farsi carico di alcune scelte. Da Pechino la dirigenza prometteva la continuità della struttura sociale tibetana e tolleranza per la religione buddhista, liberava una propaganda spesso seducente, che inneggiava ad ideali egalitaristici. Mentre in Occidente la solidarietà professata per i tibetani svaniva nel mancato appoggio materiale alla causa indipendentista. Nel 1950 il XIV Dalai Lama era un ragazzo di quindici anni che fu investito di pieni poteri in occasione della crisi che si profilava; solo un anno dopo dovette decidere se riconoscere o meno l’accordo in diciassette punti firmato da Ngapo o scegliere già allora la via dell’esilio. Qualunque siano state le decisioni di questi politici non si può escludere che essi agissero in buona fede, nella speranza di servire al meglio, o almeno di preservare, il proprio paese e la propria coscienza tibetana.

Capire le scelte di Ngapo Ngawang Jigme e del X Panchen Lama è difficile soprattutto perché sono divenuti un simbolo della presenza cinese in Tibet, sbandierato dalla dirigenza comunista, un mito negativo da contrapporre a quello positivo del Dalai Lama e della sua resistenza al potere cinese. Ma la moderazione politica del X Panchen Lama fu pagata con le torture, che subì dopo essere arrestato dalle guardie rosse. Ngapo fu sottratto alle purghe, ma quando il nuovo corso si fece strada con l’ascesa di Deng Xiaoping e le politiche tibetane si rivestirono di nuova tolleranza, egli fu di nuovo lì, accanto al Panchen Lama reintegrato, a limitare e contenere nuovi rischi di repressione, in quel precario equilibrio che contraddistinse la storia tibetana degli anni Ottanta, fatta di tolleranza proclamata, rivolta e repressione feroce.

Le due figure operarono dall’alto delle loro posizioni e delle loro cariche, all’interno di un sistema in cui erano privilegiati; agirono nella condanna ferma ed inequivocabile di ogni forma di malcontento. Ma presero anche parte agli incontri politici della dirigenza comunista, levando costantemente ed esplicitamente la loro voce contro gli spettri del radicalismo e della repressione etnica, che di tanto in tanto sembrarono riapparire all’interno della linea politica ufficiosa. Insieme, collaborazionisti al servizio del loro popolo.

[foto da wikipedia]