La Cina sono io. O dell’identità cinese

In by Simone

Iona è una giovane traduttrice della Londra di oggi. Riceve un plico contenente lettere e stralci di diario scritti in cinese. E’ la storia di Jian, musicista punk di Pechino incarcerato e poi finito in un centro per immigrati in Svizzera, che si intreccia con quella di Mu, la sua ragazza, un’aspirante poetessa. Sullo sfondo la Cina del dopo Tian’anmen. Recensione di La Cina sono io, un romanzo che ha il pregio di essere intriso delle moderne contraddizioni cinesi .
Chi si trovava in Cina nel 2011 e non poteva accedere a siti di informazione internazionale, avrebbe ignorato completamente quell’evento storico passato agli annali come le «primavere arabe». Il governo cinese decise di «spegnere» ogni informazione al riguardo, per paura che quella strana aria mediterranea potesse «corrompere» lo spirito dei giovani cinesi. Inquinamento esterno, pericoloso. Eppure in Cina, quella sparuta minoranza che viene definita nel suo insieme, con poca precisione, «dissidenza», si era informata e aveva lanciato anche in Cina una sua rivoluzione, quella dei gelsomini. Si erano diffusi su internet appelli ad andare in certe zone di certe città (le principali del paese) «passeggiando» con del gelsomino tra le mani.

A Pechino, nella via dello shopping, il giorno in cui veniva richiesto di «passeggiare» andarono nel luogo convenuto parecchi giornalisti. La sensazione era che per le strade ci fossero stranieri, poliziotti in borghese e ben poche persone a «passeggiare» per motivi politici. Alcuni lo fecero e vennero ben presto fermati. A Wangfujing – a Pechino – ad un certo punto arrivarono gli idranti e i poliziotti annunciarono di voler lavare le strade, per evitare le «passeggiate». Quei fatti sono presenti e ricordati da La Cina sono io (leggi un estratto), di Xiaolu Guo (Metropoli d’Asia, 15 euro), come escamotage nell’evoluzione della storia di Jian, cantante rock e ribelle, perso in Europa tra centri di accoglienza e uffici per la richiesta di asilo politico. La sua storia si intreccia con quella di un’altra cinese, Mu e di Iona, la traduttrice dei loro diari, misteriosamente affidati ad un agente letterario.

La Cina sono io è una storia da letteratura leggera, ma ha il grande merito di essere fradicia di cultura cinese. Per chi ha vissuto la Cina degli anni 2000  è un tuffo completo in quella straordinaria difficoltà a comprendere la grandezza della Cina, le sue contraddizioni, la sua cultura, la sua nuova identità. E proprio su questo sembra insistere Xiaolu Guo (leggi l’intervista): tutti i suoi protagonisti sono alla ricerca di una identità capace di definirli in quanto individui, alla ricerca di un’origine capace di dare un senso. Un processo che può anche portare all’autodistruzione. Ma in Cina questa «ricerca» è più che mai viva. Ad un certo punto del libro Mu, dopo una conversazione con la madre, a proposito del ruolo della donna, esclama: «il confucianesimo è ancora ben presente nei cinesi, nonostante cinquant’anni di maoismo».

Qual è infatti oggi l’identità del cinese? Maoista? Confuciano? Capitalista, turbocapitalista? Semplicemente pragmatico? La storia cinese e il concetto di Patria, decisamente peculiare e non traducibile in un semplice nazionalismo «alla occidentale», pesa su ogni cinese, frastornato quasi, dalla velocità degli eventi. I ragazzi nati negli anni 70, come i protagonisti, hanno vissuto a cavallo di due epoche, senza essere radicati nel passato, anzi conoscendo poco il periodo storico che li ha preceduti, ma neanche pronti al nuovo presente. La durezza dei rapporti personali e la inumanità dello Stato, però, accomunano i genitori ai figli. Nel libro di Xiaolu Guo Jian è figlio di un importante funzionario del Partito.

Senza rivelare l’evoluzione della storia nel volume, si tratta di un rapporto padre-figlio e Stato-cittadino, che rimane ancora oggi come quello di Imperatore-sudditi: nettamente confuciano. E su tutto sovrasta la Patria e i suoi bisogni. Il cinismo dello Stato cinese è qualcosa che chi ha vissuto in Cina non può non conoscere. E noi occidentali a volte vorremmo che di fronte a quel cinismo ci fosse una reazione. E invece i cinesi accettano. Accettare non significa, come spesso credono gli occidentali, rassegnarsi. È un atteggiamento figlio della cultura cinese, molto improntata al compromesso, all’adeguamento della situazione che ci si trova di fronte, a vedere il bene e il male sempre mischiati e non compartimentati.

L’arroganza occidentale, agli occhi dei cinesi, prova invece a debellare il destino, yuanfen, che per i cinesi è qualcosa di quasi filosoficamente religioso. I due protagonisti cinesi del libro cercano dunque la propria identità, in maniera diversa. Attraverso una ribellione politica, intrisa di maschilismo di Jian o una ribellione interiore, quella di Mu. Una sorta di processo personale, che la Cina sembra stia compiendo anche come popolo.

[Scritto per il manifesto]