L’ultima opera di Yu Hua, dentista diventato scrittore, coniuga esperienza personale e storia nazionale in un intreccio di fatti pubblici e privati, cronaca antica e recente, personaggi veri o inventati. Lo fa in sole dieci parole. Quante bastano per restituire un’immagine non stereotipata della Cina attuale.
“A volte per incontrare una parola serve l’occasione giusta. Ciascuno di noi nel corso della vita entra in contatto con tantissime parole: alcune si comprendono immediatamente, altre restano impenetrabili anche dopo un’intera esistenza”.
L’ultimo libro di Yu Hua “La Cina in dieci parole”, edito in Italia da Feltrinelli, riesce nel titanico tentativo di restituire un’immagine non stereotipata della Cina attuale: fuori da luoghi comuni, sinocentrismi e da ottiche pseudorientaliste.
Per farlo si serve di ricordi, immagini, personaggi, fatti e luoghi evocati, come spiriti di una tradizione senza tempo, dal potere suggestivo delle parole.
Parole che, come formule di un incantesimo comunitario arcaico, richiamano alla mente concatenazioni di eventi che non seguono un ordine cronologico, quanto piuttosto quello di una logica strettamente personale e autoriale.
Una parola è così in grado di riferirsi sia al periodo maoista, sia a quello tumultuoso degli anni Novanta, sia a quello attuale: assumendo significati e connotazioni diverse a seconda dei tempi e delle interpretazioni.
È il caso, per esempio, della parola “popolo”(renmin): declinata in ogni sua accezione e occorrenza perché, se il termine non cambia, l’oggetto che contrassegna cambia eccome.
Ancora più significativa è “rivoluzione” (geming), associata tanto alla Rivoluzione culturale (fase più acuta del maoismo), quanto al periodo di trasformazioni economiche che hanno inizio a partire dagli anni Ottanta con la politica della porta aperta.
Ma accanto a queste troviamo anche parole che scardinano le serrature chiuse dell’autore: “lettura”, “scrittura”, “Lu Xun”. Chiavi d’accesso a un mondo intimo, privato che consentono a Yu Hua di analizzare la propria storia personale in prima istanza come ‘cinese’ e solo in secondo luogo come ‘scrittore’.
Finalmente in queste pagine troviamo svelato il percorso che ha portato il dentista di una piccola cittadina del sud della Cina a diventare uno dei più importanti romanzieri contemporanei: “Ho cominciato a scrivere a ventidue anni, mentre cavavo denti. Cavavo denti per mantenermi e scrivevo per non cavarne più. (…) La scrittura è come la vita: se ti sottrai alle esperienze, non ne capirai mai il senso. Per lo stesso motivo, se non scrivi, non saprai mai cosa sei in grado di creare.”
Sembra dunque di vederlo questo ‘dentista obbligato’ (ai tempi, come sottolinea lo stesso autore, era il governo stesso ad assegnare un impiego e cambiarlo era estremamente difficile, se non impossibile) che, senza nessuna preparazione medica, inizia a praticare la professione sotto l’occhio neanche tanto vigile di un dentista più anziano.
L’autore racconta, con l’ironia che gli è consona, il panico delle prime estrazioni e l’invidia provata per coloro che giù in strada passeggiavano liberamente in qualità di membri del Centro culturale.
Da lì il desiderio di entrare a far parte di quel circolo ristretto tanto più che, in epoca socialista, ogni lavoratore percepiva sempre lo stesso stipendio qualunque fosse la sua mansione: “in ambulatorio ero un poveraccio che faticava, al Centro culturale ero un poveraccio libero e felice.”
Così Yu Hua comincia a scrivere: non seguendo una vocazione o un desiderio irrefrenabile, ma valutando pragmaticamente pro e contro.
I suoi primi testi (tra quelli tradotti in italiano possiamo citare “Torture” e “Cronache di un venditore di sangue”) sono tutti intessuti di sangue, violenza, crudeltà, traumi.
Sono fatti di trame visionarie, allucinate, splatter dispiegate con uno stile sintetico, breve e talvolta derisorio: tendono a scioccare il lettore più che a coinvolgerlo nella narrazione.
Fino ad arrivare a “Brothers” libro che, secondo molti critici, segnala la definitiva svolta stilistica: qui violenza e sangue non sono più i ritornelli standard di un pentagramma lineare, ma momenti topici di una storia struggente e bellissima che prosegue nel successivo “Arricchirsi è glorioso”.
Su questo improvviso cambio di marcia si è molto dibattuto e solo adesso Yu Hua si sente di avere e dare una risposta specifica.
Racconta di sogni terribili che lo perseguitavano in notti insonni e agitate, esorcizzati durante il giorno con la scrittura. In particolare descrive l’ultimo, ancora più tremendo (anche perché chiaramente collegato al suo vissuto), che gli fa maturare la decisione di smettere di scrivere di sangue e violenza: i mostri suscitano solo altri mostri.
Ecco dunque come “La Cina in dieci parole” sia allo stesso tempo un album di ricordi personali e una sorta di ordinato archivio in cui, sotto ogni parola/etichetta, sono raccolti fatti pubblici e privati, pezzi di storia e di cronaca antica e recente, tracce di percorsi emotivi e di personaggi veri o inventati.
Dieci parole soltanto che però bastano a farci da punti cardinali e da guida per non perdere di vista la traiettoria e per trovarci infine a essere, come l’autore, dei “pescatori di ricordi seduti sulla riva del tempo, in attesa che il passato abboccasse”.
* Rita Barbieri è docente di lingua cinese presso alcune strutture private a Firenze, laureata con lode in Lingue e Civiltà dell’Oriente antico e moderno presso l’Università degli studi di Firenze.