La battaglia di Pechino contro Wikipedia

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Dallo scorso mese, chiunque voglia consultare Wikipedia in Cina è costretto ad utilizzare VPN e server proxy che consentono la navigazione anonima. Secondo un rapporto dell’Open Observatory of Network Interference, osservatorio mondiale sulla censura, dal mese di aprile, oltre la Muraglia, la famosa enciclopedia online risulta inaccessibile in qualsiasi lingua, alla stregua di molti altri siti stranieri quali Facebook e New York Times.

Come spiega ad AFP l’organizzazione GreatFire.org, la mossa – che precede di meno di un mese il trentesimo anniversario del massacro di piazza Tian’namen – potrebbe essere motivata in parte dalla diffusione di traduttori online e quindi dalla maggiore accessibilità di materiale in lingua straniera. In parte da una crescente ossessione della leadership comunista per la circolazione di informazioni sensibili, anche semplicemente attraverso immagini. “Un’immagine vale più di mille parole e sul sito di Wikipedia certo non mancano immagini di Tian’anmen”, spiega uno dei cofondatori di GreatFire.org noto con lo pseudonimo di Charlie Smith che attribuisce un valore prevalentemente “simbolico” all’inasprimento delle misure censorie contro l’enciclopedia libera. Un’ulteriore conferma della “paura che le autorità cinesi hanno della verità”.

E’ dal 2004 che il sito di Wikipedia, nella Repubblica popolare, subisce periodici blackout e nel 2015 il servizio in caratteri cinesi è stato definitivamente bloccato, sebbene fino al 23 aprile sia rimasto consultabile in altre lingue. Ma nell’ultimo anno, le rivendicazioni di Pechino sulla sua cybersovranità si sono tradotte in un serrato giro di vite online. Lo scorso novembre, la Cyberspace Administration ha annunciato di aver chiuso 9.700 account sulle piattaforme social WeChat e Weibo per arrestare la diffusione di informazioni “politicamente dannose”. Ultimamente, i controlli sono stati estesi anche a Twitter, già censurato in Cina ma utilizzato sempre più spesso dagli attivisti per eludere il bavaglio. La corposa lista di anniversari sensibili – oltre al massacro dell’89 quest’anno ricorrono i 100 anni dalle proteste nazionaliste contro il trattato di Versailles e i dieci anni dalla sommossa di Urumqi – potrebbe aver contribuito non poco ad alzare il livello di guardia in rete.

Wikimedia Foundation – la no-profit che gestisce il sito – ha confermato la notizia del blocco totale, aggiungendo di non aver ricevuto alcun chiarimento ufficiale a riguardo. Ma il rammarico è grande. Come spiega Samantha Lien, responsabile per la comunicazione dell’organizzazione, ora che “milioni di lettori e redattori volontari, scrittori, accademici e ricercatori” non possono più accedere a Wikipedia “il mondo intero è più povero”. E lo è anche la Cina.

Le ripercussioni – a doppio senso – pongono Pechino davanti a un dilemma. Infatti, non solo la censura limita l’appeal del mercato cinese agli occhi delle aziende straniere. Nella delicata fase di transizione da un modello di sviluppo basato sul binomio export-infrastrutture, l’inibizione della libera circolazione di idee rischia di compromettere l’ambiziosa agenda economica cinese, sempre più basata sulla ricerca scientifica e tecnologica. Proprio oggi, la rivista teorica ufficiale del partito Qiushi ha pubblicato un vecchio discorso di Xi Jinping sulle fragilità dell’economia nazionale. Per stessa ammissione del presidente cinese, anche se “l’economia nazionale è volata al secondo posto a livello mondiale”, “le scarse capacità innovative” rappresentano il vero “tallone di Achille” della crescita cinese.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]