Jammin’ Shanghai, le interviste

In by Simone

L’approccio di Gegè Telesforo col pubblico dell’Expo non è stato subito facile. Era andata bene alla superstar Bollani che nel suo concerto inaugurale per piano solo (lo stesso con cui avrebbe chiuso il festival 4 giorni dopo) si è trovato davanti una platea composta, di esponenti della comunità italiana a Shanghai, nella piazza del padiglione Italia, in una bella serata di Italian jazz & wine.

Gegè Telesforo sbarcato dall’aereo qualche ora prima, si è trovato invece all’una di pomeriggio, col suo quintetto in una Europe Square assediata (il record di visitatori con quasi un milione di persone è stato battuto proprio sabato scorso). Davanti a lui tre file di cappelli rossi della sezione locale del partito, continuavano a divorare cetrioli. Ma era solo il primo di 4 giorni lunghi come 4 mesi, avrebbe cambiato gli umori del pubblico e la sua idea su Shanghai molto presto, tanto da dichiarare a fine festival a giornalisti italiani e tv cinesi: «Esperienza fantastica. Siamo stati un gruppo di esploratori della musica che è venuto a sondare questo mercato in cui secondo me c’è tanto da fare. Se discografici e produttori ci credessero qui il jazz italiano può fare tanto, ormai abbiamo raggiunto dei livelli di qualità artistica che sono secondi solo agli Stati Uniti».

Paolo Fresu: da Pechino ’95 a Shanghai 2010, un salto enorme

Paolo Fresu, solitamente timido riservato, restio a far foto e rilasciare autografi così come a mischiarsi tra i fan, a Shanghai è ritornato giovane, stregato da quattro giorni di jazz come in Italia non se ne sentono più: «Ero già venuto in Cina nel 1995 per suonare al festival jazz di Pechino in un teatro per bambini con pochissima gente ad ascoltarci che ci guardava come marziani. Fino a Shanghai 2010 il salto è enorme, ho trovato un pubblico sicuramente più eterogeneo ma anche più attento e concentrato».

Che pensi dell’esperienza, valeva la pena venire fin qui?
Assolutamente sì. Suonare all’Expo è stato a tratti emozionante, ho visto orecchie attente pronte a ascoltarci anche se magari non avevano mai sentito questo tipo di musica. Non solo ma Shanghai, anche per la sua tradizione jazzistica, mi ha convinto che c’è tanto da fare. Ho trovato un festival jazz con dei grandi nomi della musica americana che ho avuto la possibilità di incrociare nei locali di Shanghai.
 

La parte più bella del festival?
Sicuramente le jam session notturne, roba che in Italia non succede più. Abbiamo suonato coi colleghi fino a notte fonda in un’atmosfera unica e davanti a un pubblico che sarebbe potuto essere in qualsiasi parte del mondo, sembrava New York. Ho duettato con Francesco Cafiso, assieme al suo gruppo e ho contrattato il suo pianista Dino Rubino con la mia nuova etichetta Tuk Music. Francesco è bravissimo, come gli altri colleghi che erano qu la possibilità di passare dei giorni assieme a tutti questi altri grandi musicisti Italiani, è stata un’occasione unica che ci ha dato un sacco di stimoli. In Italia ci vediamo nei festival ma non si va oltre la sera a cena, o incrociarsi sotto il palco. Qui c’è stata  la possibilità di dialogare con loro esplorando una terra e un mercato nuovo emergente e stimolante in cui il jazz italiano può fare tanto.

E il jazz italiano è pronto per la Cina?
In italia abbiamo una grande scuola che sta crescendo tantissimo il nostro jazz per me è al secondo posto mondiale, forse con quello scandinavo, e dopo quello americano. Per questo manifestazioni come the best of Italian jazz in Shanghai organizzata dal padiglione Italia possono far tanto per la diffusione della nostra musica. Torno in Italia con tanta energia, tanti stimoli e  sicuramente la voglia di tornare in questo paese e conoscerlo meglio.