Indipendenti o ribelli? La Cina e il cinema indie #2

In by Gabriele Battaglia

China Files torna su uno dei temi che gli sta più a cuore: il cinema indipendente cinese. Un lungo articolo – che pubblicheremo in tre parti (leggi 1/3) – ne ripercorre la storia e le sfide. In questa seconda parte i temi della classe media, l’autocensura, le riflessione sull’io e la riscoperta delle tradizioni. Cosa significa e cosa ha significato negli anni essere un regista indipendente?
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Ying Liang
introduce perfettamente una categoria di filmmaker Cinesi che potrebbero essere definiti come la Middle Class: si tratta di autori che hanno realizzato prodotti di estremo valore ai margini dell’industria cinematografica, ma il cui futuro non è rimasto marginale. Con questo non si intende dire che immancabilmente tutti i temi scelti da questi autori siano necessariamente gli espulsi della narrazione; piuttosto che in questo gruppo sono inclusi anche coloro che, come i casi sopra, hanno affrontato privazioni personali della libertà di parola e azione pur si poter raccontare l’innominabile. Sono i Festival internazionali poi, che hanno avuto un ruolo protettivo, riconoscendo a queste opere una dignità artistica tramite premi e clamore mediatico. Automaticamente, quelli che prima erano artisti dalle identità confuse diventano autori di primo piano, circondati dall’attenzione del pubblico a dall’encomio della critica internazionale.

Talvolta questo ha creato ripercussioni sgradevoli in patria, altre volte continua per questi autori la militanza nel settore indipendente; altre volte ancora questo gli è valso una conquista di spazi, di credibilità, di possibilità di finanziamento. Ecco questa Middle Class è rappresentata da coloro che hanno guadagnato una credibilità estera ma che rimangono a latere del mainstream a causa della scelta (volontaria o meno) di operare in ambito indie. Ciò a cui mi riferisco non è necessariamente il trattamento drastico riservato a Du Bin o Ying Liang, ma si tratta piuttosto di una opposizione silenziosa che impedisce a questi autori di raggiungere le sale. La loro distribuzione, in seno alla Cina, può avere due strade: le sale certo, ma in numero contenuto e per periodi ridotti, oppure la via della militanza tra Festival e circuito underground.

Mi piace ricordare a tal proposito il bell’esempio di Lou Ye, un regista che ha alternato periodi di divieto professionale imposto (Summer Palace gli è costato 5 anni di cartellino rosso!), ad altri di carica creativa, e finalmente abbiamo potuto apprezzare nei cinema la sua ultima opera, vincitrice dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino, Blind Massage (2014). Ma se prendiamo d’esempio un altro film presentato alla stessa edizione del festival, No Man’s Land di Ning Hao (2013), la situazione è diversa: ci sono voluti quattro anni affinché il final cut soddisfacesse le richieste del visto di censura. E poi, al botteghino ha conquistato oltre 3 milioni di dollari la sola sera di apertura. E così anche per Jia Zhangke, che a livello mondiale è indiscutibilmente riconosciuto come un pilastro della produzione creativa cinematografica della Repubblica Popolare Cinese, ma che ancora in patria si scontra con la diffidenza censoria: Il tocco del peccato (2013) vede la luce solo in seguito al successo ottenuto a Cannes. Ribadendo, è chiaro che esiste uno scarto economico tra le possibilità di registi navigati come Jia Zhangke o Luo Li (mai sentito nominare? Probabilmente in futuro…).

Autocensura e temi
Ora, la situazione è molto meno chiara e ben più elastica di quanto riassunto sopra. Ma questa categorizzazione ci aiuta a comprendere quanto meno perché esistano registi che si muovono solo nel main, altri che vi oscillano a piacimento e altri ancora che al main non riescono ad accedere: talvolta per scelta, talvolta perché si cade nella morsa del Governo per un passo falso. È un po’ quello che è successo a tutti coloro che hanno anche solo velatamente appoggiato il movimento Occupy Hong Kong: cantanti, scrittori, registi si sono visti smantellare la propria arte, cancellare i propri interventi da internet, annullare le comparse pubbliche per il solo fatto di aver magari postato una foto o un commento. Provvedimenti presi con la motivazione di “slealtà verso la patria”. Insomma, essere autore in Cina vuol dire anche questo: sapersi autocensurare se non si vuole entrare in un pericoloso gioco delle parti. Quindi la scalata compiuta da Zhang Yimou che da regista spalle-al-muro è diventato imperatore del mainstream, non è una questione di sola qualità artistica.
 
Si tratta anche di un compromesso che riguarda le scelte tematiche, il dialogo con l’istituzione censoria e la condotta pubblica stessa. Che sia possibile che una volta raggiunta la fama di cui Zhang Yimou gode, si possa osare di più? Non saprei garantirlo, il suo esempio non lascia grandi speranze: quando il regista è stato scoperto padre di sette figli, in aperta, spalancata, violazione della Legge del Figlio Unico, gli è stato chiesto di pagare una copiosa multa. Sebbene risulti quanto mai grottesco che uno possa accidentalmente e improvvisamente essere “pescato” padre di sette figli… Possiamo forse considerare la sua ultima opera Ritorno a casa (2014) un velato tentativo di rappresentare i tabù della Cina negli anni della Rivoluzione Culturale, nascondendoli dietro alla storia d’amore tra i due protagonisti? Personalmente, ritengo ci sia troppo perbenismo ed edulcorazione per poter rappresentare una volontà di reale filologia storica; tuttavia, è evidente che tanto più di questo, al fine di restare nell’ammissibile, non sia possibile rappresentare. Ecco, l’autocensura è pienamente operante ed è quindi necessaria se si vuole continuare a restare nella ruota dei budget vertiginosi e soprattutto, avere accesso alle sale cinesi.

Tuttavia, come dicevo poco più sopra, la funzione indipendente=ribelle ha perso la portata del principio. Negli ultimi anni molti i registi, nel tentativo di non finire nella morsa governativa da un lato e per reale necessità espressiva dall’altro, si stanno concentrando sempre più sui discorsi che interessano l’identità delle persone, nelle sue più varie forme, un tema che la fa davvero da padrone nelle produzioni della Repubblica Popolare Cinese di oggi. Questa libertà tuttavia è relativamente recente, dal momento che ai registi della cosiddetta Quinta Generazione non era così facilmente concesso di trattare la riflessione sull’Io; mentre invece l’atteggiamento di oggi pare più quello di elasticità verso la sfera individuale, magari al fine di dimenticarsi di altri macrolivelli problematici. Abbiamo perciò una larga produzione che riguarda le identità negate dalle condizioni di lavoro: migranti o lavoratori delle grandi aziende, la cui vita dipende dagli estenuanti orari di fabbrica e il cui tempo libero si svilisce di ogni energia ed interesse.

Esistono poi altre trattazioni legate al concetto di individuo nella città, dove quindi la ricerca di identità si associa agli spazi, così destrutturanti e impoverenti (recente ed ermetico, su questo tema, l’opera di Yang Zhengfan, Distant). A seguire si sta assistendo poi ad una rivalutazione del concetto di individualità culturale, per cui le minoranze che risiedono nel territorio della Cina hanno iniziato ad elaborare una riflessione in funzione della salvaguardia delle tradizioni. Rientra in questa categoria il lavoro di Gu Tao, nativo dell’Inner Mongolia; tra gli ultimi, il suo toccante The last Moose of Ao Lu Gu Ya (2013), dove la storia di Weijia è il simbolo di una società sradicata che conduce alla perdizione. Ciononostante, come si può ben immaginare, alcune di queste “identità” rientrano nella categoria dei temi caldi, per cui Tibetani e Uiguri hanno libertà di parola limitata. Ma cosa succede esattamente a queste produzioni? In altre parole, questi film a piccolo budget, prodotti a volte da una task force tra produttore e regista che diventano anche montatore e operatore, come incontrano il pubblico se alle sale proprio non hanno accesso?

[Scritto per TaxiDriver]
*Rita Andreetti nasce a Ferrara nel 1982. Si è occupa attivamente di cinema indipendente in Italia anche tramite il portale Indipendentidalcinema.it. Scrive per la rivista Taxidrivers.it e per FareFilm.it di cinema asiatico e cura un blog per Vanity Fair in cui racconta della sua esperienza: cineserie.vanityfair.it. Sogna un giorno di poter parlare cinese correntemente e distribuire film italiani a questo immenso pubblico.