India – Tutta la visita di Obama a New Delhi

In by Simone

La visita del presidente degli Stati Uniti era stata annunciata mesi fa. Per la prima volta Barack Obama, accompagnato da Michelle Obama, ha presenziato come ospite d’onore alla parata militare della Festa della Repubblica indiana (66esima edizione). Molto drama, moltissima fuffa data in pasto all’opinione pubblica, chicche swag di NaMo e poca poca sostanza.Le settimane precedenti all’arrivo di Obama in India sono state un turbinio di grattacapi per la sicurezza nazionale, impegnata a garantire l’incolumità del presidente Usa e moglie lungo tutto il soggiorno (tre giorni, inizialmente, prima che la morte di Re Abdullah in Arabia Saudita avesse fatto saltare la visita al Taj Mahal di Agra, che i servizi americani hanno setacciato palmo a palmo per giorni).

Obama, dagli Usa, aveva manifestato il desiderio peregrino di voler visitare Varanasi, la Città Sacra Hindu per antonomasia, seminando il panico tra le autorità locali. Mettere in sicurezza assoluta il dedalo di viuzze a ridosso dei ghat sarebbe stata impresa ultraterrena e, per non rischiare, qualcuno deve aver spiegato a Barack che forse era meglio lasciar perdere. Facciamo le cose facili.

Atterrato domenica mattina all’aeroporto militare di New Delhi, Barack Obama è entrato subito nel vortice mediatico della macchina della propaganda di Modi. NaMo, rompendo il protocollo, si è presentato alla pista d’atterraggio per accogliere l’amico Barack con un abbraccio molto poco istituzionale, a rimarcare il livello di bromance (sentimentalismo virile) che pare leghi i due. Il risultato, per i critici, ha ricordato molto di più le cerimoniosità da aeroporto che coinvolgono i parenti indiani quando accolgono le famiglie emigrate in "amrika".

Tempo di muoversi dall’aeroporto a Rashtrapati Bhavan (il palazzo presidenziale) per essere ricevuti dal presidente della Repubblica indiana Pranab Mukherjee, e Narendra Modi aveva già cambiato outfit. La tenuta tradizionale in salwar kameez lascia spazio a un completo alla occidentale in gessato. La delizia vera, scovata ingrandendo le foto di rito, è che le righe verticali della giacca di NaMo sono formate dalla ripetizione ad libitum del nome intero del primo ministro: Narendra Damodardas Modi. Epico.

Il completo autoreferenziale Modi se lo terrà addosso anche durante la "passeggiata di lavoro" nei giardini della Hyderabad house con Barack Obama dove, a quanto si dice, i due avrebbero deciso di sbloccare l’accordo per la cooperazione indo-americana nel campo dell’energia nucleare (ma questa è roba seria, approfondiamo dopo).

A favor di telecamera, Narendra Damodaras Modi si è fatto immortalare nel gesto di servire il té al presidente Usa: enorme sollievo di giornalisti e addetti alla comunicazione indiana, che finalmente hanno potuto rilanciare la storiella del venditore di chai dalle umili origini che – Indian Dream! – diventa primo ministro della democrazia più grande del mondo.

Dettaglio di Modi iscritto e militante del gruppo parafascista hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh – spina dorsale del Bharatiya Janata Party – sin dall’età di otto anni: non pervenuto. Figurarsi l’episodio dei pogrom antimusulmani in Gujarat nel 2002: acqua passata, con buona pace dei mille e più trucidati dalle squadracce degli integralisti hindu.

Al termine del colloquio, Modi e Obama hanno tenuto la tradizionale conferenza stampa congiunta, con reciproco scambio di affetto, complimenti per le poche ore di sonno (5 a notte per Obama, solo 3 per Modi) e passaggi d’etichetta sui risultati raggiunti finora. Sono pochini, li possiamo elencare per punti.

– Apertura di una hotline diretta tra Casa Bianca e ufficio di Modi, un lusso del quale non godono né Cina né Pakistan.

– Impegno a proseguire la cooperazione in materia di riduzione delle emissioni, tutela ambientale, difesa.

– Accordo quasi definitivo per iniziare una cooperazione anche commerciale nel campo dell’energia nucleare.

L’ultimo punto merita un piccolo approfondimento. Le trattative tra Usa e India per una collaborazione nel campo del nucleare civile iniziano nel luglio del 2008, quando George W. Bush e Manmohan Singh firmano un trattato molto vago sul "principio" di aprire, prima o poi, una partnership indo-americana per portare nuove tecnologie nucleari nel subcontinente.

Quella firma ha una portata storica, poiché sancisce la fine del rifiuto ufficiale di Washington di collaborare nel campo dell’energia nucleare con un’India lasciata fuori dal gruppo dei "partner atomici" mondiali sin dai primi test per il nucleare bellico del 1974.

L’accordo si è trascinato per anni e diverse amministrazioni in entrambi i paesi, con piccoli passi in avanti importanti ma non troppo. Il problema principale, fino ad oggi, è rappresentato dalla legge indiana sulla responsabilità legale in caso di incidenti nelle centrali. Secondo la norma attualmente in vigore, quando si verificasse un incidente gli operatori locali (cioè la compagnia che gestisce la centrale in India) possono chiedere risarcimenti ai fornitori di tecnologia e materiale radioattivo, ovvero ai partner commerciali stranieri, se il disastro è causato da materiale importato difettoso. Stesso discorso per i cittadini indiani, che possono portare in tribunale sia la compagnia indiana "responsabile" sia i fornitori "stranieri".

Su questo gli Usa volevano delle rassicurazioni, senza rimanere legalmente esposti una volta che la tecnologia e il materiale radioattivo viene consegnato al "cliente" indiano:  toccato suolo indiano, tutto quello che succede dopo sono affari vostri.

Ora, Modi e Obama hanno annunciato che è tutto a posto, abbiamo capito come superare questo ostacolo e ormai siamo arrivati, si può forse quasi iniziare la parte commerciale del tutto. Solo che non hanno spiegato come, qual è la soluzione trovata. I media indiani ipotizzano che l’ostacolo della legge locale – che Modi, per cambiarla, dovrebbe per forza raccogliere un’intesa in parlamento alquanto improbabile – potrebbe essere aggirato imponendo una copertura assicurativa per ogni contratto chiuso, ma questo farebbe salire enormemente il costo della realizzazione di nuove centrali in joint venture americana, e a quel punto agli Usa potrebbe non convenire più.

Insomma, pare tutto piuttosto fumoso, quando si va nel dettaglio, ma poco importa in questa emozionante manifestazione di bromanship mista ad annuncite. Lunedì, nelle tre ore di parata militare non è successo – ovviamente – nulla. Tutto si è svolto noiosamente e, grazie a Dio, senza intoppi o minacce di attacchi terroristici. Rajpath – il viale dove si è tenuta la sfilata dei corpi militari, dei carri dedicati a ogni stato indiano più svariati show folkloristici tra cui brilla l’atroce sfilata dei bambini che danzavano e cantavano esaltando la mission to Mars indiana del satellite Mangalyaan – è rimasto blindato per tutta la giornata, dando dimostrazione dell’efficienza dei controlli di sicurezza indiani. Nota di colore: pare Obama abbia masticato un chewing-gum per tutto l’evento, senza mai sputarlo.

Menzione d’onore per Michelle Obama che a livello mediatico buca lo schermo come nessuna delle sue omologhe al mondo. Memorabile la foto di rito col presidente Pranab Mukherjee nella quale la First Lady ha sfoggiato un vestitino tema floreale poco sotto il ginocchio, con un accenno di scollatura. Capisco che possa sembrare una sviolinata da rivista patinata, ma un vestito così in India si vede o in tv, o al cinema, o dentro i locali della nightlife urbana. Applausi per Michelle che se ne frega dell bigottume indiano.

Durante il summit organizzato da Modi all’hotel Taj di New Delhi, alla presenza dei principali esponenti di India Inc., Obama ha spiegato nel dettaglio le iniziative concrete che dovrebbero incarnare il sostegno Usa alla ripresa indiana.

Sono stati promessi quattro miliardi di dollari in incentivi per l’export americano verso l’India, per le energie rinnovabili (pannelli solari) in India e per aiutare le piccole e medie imprese nel subcontinente.

Le cifre sono state snocciolate da Obama inserendole in un discorso molto "programmatico". India e Usa possono diventare grandi partner, sostiene il presidente degli Stati Uniti, e c’è un potenziale enorme da sfruttare, considerando che al momento gli scambi tra New Delhi e Washington ammontano alla cifra record di 100 miliardi di dollari. Ma, di fronte a una quasi parità di popolazione, la stessa voce nei confronti della Cina per gli Usa vale cinque volte tanto.

Slegati dal contesto da epopea che ha contrassegnato il racconto della visita indiana degli Obama, quattro miliardi di dollari paiono un po’ pochini, paragonati ai 20 promessi dalla Cina e ai 35 messi sul piatto dal Giappone nei mesi scorsi. Tutto in attesa di capire effettivamente in cosa consista lo sblocco per le joint venture nel settore dell’energia nucleare.

Martedì mattina Barack Obama, accompagnato dalla moglie Michelle, ha tenuto un discorso davanti a una platea di studenti all’interno del Siri Fort di New Delhi. In quell’occasione Obama ha parlato un po’ più "da Obama", forse perché davanti ai giovani dà il meglio, più probabilmente perché per una volta ha potuto affrontare l’uditorio senza Modi al proprio fianco.

E quindi ne ha approfittato per lanciarsi in un terreno scivolosissimo, in India: quello della religione.

In un passaggio che si è giustamente guadagnato i titoli di tutti i giornali, Obama ha detto che l’India potrà prosperare se non si dividerà lungo traiettorie religiose: i media hanno ricondotto la frase all’articolo 25 della costituzione, che garantisce la libertà di culto nel paese, interpretandola come un attacco agli "estremismi".

Ora, considerando i recenti episodi di conversioni forzateghar wapsi – organizzati dalle sigle dell’ultrainduismo, il ruolo della Rss nella politica nazionale, i problemi che l’India ha con la libertà d’espressione e l’attuale governo del Bharatiya Janata Party al potere (con numerosi esponenti, Modi compreso, dal passato e dal presente (?) piuttosto controverso in termini di attivismo all’interno di gruppi paramilitari ultrainduisti), il fatto che Obama abbia pronunciato quelle parole nell’unica occasione in cui non era accompagnato dal premier Narendra Modi mi pare tutto fuori che una casualità.

In definitiva, questi tre giorni di visita sono stati in India l’occasione per scrivere un nuovo capitolo dell’autobiografia di Narendra Modi. Raccontare un paese che, incarnato nel proprio primo ministro, sta letteralmente al fianco degli uomini più potenti della Terra, viene descritto come un "partner naturale", una grande democrazia che rispetta i diritti umani (testuale da un passaggio di Barack Obama), un attore fondamentale per il futuro del Pianeta, come ha rimarcato Modi legando le sorti della Repubblica indiana a quelle del resto del mondo. La magniloquenza con cui è stato trattato ogni singolo aspetto della visita di Obama, sfondando spesso e volentieri nel peggiore degli infotainment, mostra la volontà politica e mediatica di rimettere l’India al centro delle relazioni internazionali.

Farne, attraverso una potenza economica ancora in work in progress, un paese imprescindibile per determinare gli equilibri mondiali. In questa auto celebrazione oggettivamente ricca di sincera speranza, tutti gli aspetti controversi del paese sono stati sistematicamente schivati. In primis dagli stessi giornalisti indiani, molto più impegnati a celebrare le apparenze più che indagare nella realtà complessa che tutti, qui in India, abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, approfittando di uno dei rarissimi momenti in cui il premier Modi è stato obbligato a concedersi alle domande delle conferenze stampa.

Per questo, forse, l’aspetto più rilevante dell’evento "Obama in India" è stato tutto ciò di cui non si è parlato. Una serie di temi che Siddarth Varadajan ha messo in fila in un post amaro pubblicato sul portale di Ndtv, intitolato 10 Questions Obama and Modi Should Have Been Asked. Le risposte a quelle dieci domande avrebbero raccontato, in parte, l’India che é. Questa volta, per l’ennesima, è andata in onda l’India che Modi, e chi lo sostiene, sperano diventi presto.

Sullo scacchiere internazionale cambia poco rispetto all’arrivo di Narendra Modi al governo. L’India ne esce sempre più come un partner ideale per tutti, inserendosi nel gioco multilaterali di "amici di tutti, alleati di nessuno" (solo un mese fa Modi magnificava "l’impareggiabile" rapporto tra New Delhi e Mosca: come questo sia compatibile con questa sbandierata amicizia con Obama rimane un mistero).

Gli Usa pare si prestino a questo gioco mediatico orchestrato da Modi, sfruttando l’operazione per aprire potenziali canali di collaborazione e mettere quel po’ di pressione che male non fa sul resto dei principali attori internazionali: Russia, Pakistan e Cina in particolare.

Pechino osserva con attenzione i movimenti di New Delhi, che vede come partner strategico più in chiave di sottrazione ad altri (levarlo agli americani) che come competitor. E infatti proprio nella giornata di domenica, felicitandosi col presidente Pranab Mukherjee per il 66esimo della Repubblica indiana, il presidente Xi Jinping ha aperto la porta a nuove strategie bilaterali future con l’India, con la volontà di portarle a "un nuovo livello".

Segno che la strategia di Narendra Modi, almeno sulla carta, sta funzionando. Amico di tutti, alleato di nessuno.

[Scritto per Elefanti a parte, ospitato da East online; foto credit: nbcnews.com]