India – L’intoccabile Salman Khan

In by Simone

Salman Khan, megastar (e stiamo nell’eufemismo) dell’industria cinematografica di Bollywood, è stato condannato a cinque anni di carcere per l’omicidio colposo di Nurullah Shaikh, investito nel 2002 dal fuoristrada di Khan che, secondo l’accusa, l’attore stava guidando di notte in stato di ebbrezza tanto da sbandare e finire sul marciapiede dove Nurullah, assieme ad altri lavoratori senza domicilio, stava dormendo. La pena è stata poi sospesa nel giro di 48 ore. La notizia ha completamente spazzato via qualsiasi altro tema vagamente rilevante in ambito nazionale e internazionale, concentrando le forze dei media locali nel racconto di una vicenda cinematografica in ogni accezione del termine, cartina al tornasole del rapporto tra l’opinione pubblica dei mortali e il mondo parallelo dei semidei del grande schermo indiano.

La dinamica dell’incidente, senza stupore, riteniamo sia abbastanza ricorrente in un paese dove il senso di impunità e onnipotenza della classe privilegiata calpesta quotidianamente, e senza remore, il resto degli “altri”: un ricco indiano (presunto) sbronzo sbanda e uccide un povero indiano che campa per strada. Di norma, casi del genere non arrivano nemmeno in tribunale, trovando nella compensazione extragiudiziale una via immediata e “indolore” per chiudere la pratica. Sempre che non finisca con un linciaggio sul posto della persona alla guida, eventualità piuttosto probabile in un contesto dove la fiducia nelle forze dell’ordine (e, in generale, nel sistema del law and order) è minimo.

Ma quando il ricco indiano (presunto) sbronzo si chiama Salman Khan e gode di una reputazione da semidio in tutto il paese, il trasposto mediatico della banale società iniqua indiana si carica di messaggi trasversali e pathos proprio come in una pellicola bollywoodiana.

Qui non siamo grandi fan di Bollywood né conosciamo a menadito il curriculum di Khan, ma nonostante ciò sappiamo – e non potremmo non saperlo – che Salman Khan, per larghissima parte del pubblico indiano, trascende la dimensione umana, sfociando nel mito epico. Salman Khan è il duro dal cuore d’oro non solo nei suoi film, ma anche nella vita fuori dal set, ammesso che i divi di Bollywood ce l’abbiano. E come in un film, i 12 anni che hanno diviso l’incidente dalla sentenza (in primo grado!) sono stati ricchi di colpi di scena.

Salman Khan, secondo l’accusa, guidava senza patente mentre tornava a casa dopo una serata passata per locali a Mumbai. La prova del tasso alcolico elevato riscontrato dagli esami del sangue era il perno della strategia dell’accusa, oltre all’ammissione di un altro passeggero dell’auto, Ravindra Patil, poliziotto di Mumbai che proteggeva l’attore da guardia del corpo a fronte di minacce ripetute della mafia locale. Patil aveva confessato che sì, Salman Khan era alla guida ed era pure ubriaco. Caso chiuso? Neanche per sogno.

La difesa di Khan, negli anni, è riuscita a rallentare il dibattimento contestando sistematicamente ogni accusa mossa all’attore. L’esame del sangue? Poteva essere stato contaminato, poiché prelevato non rispettando gli standard di igiene e sicurezza, conservato in un ambiente insalubre (un laboratorio in ospedale) e trattato senza reagenti che ne preservassero la condizione, dettaglio che secondo la difesa avrebbe potuto far “fermentare” il sangue del divino Khan e quindi indicare un tasso alcolemico non provocato dall’ingerimento di alcolici (applausi!).

Patil dice che Khan era ubriaco e alla guida? Patil è morto di tubercolosi e siccome la difesa non può interrogarlo, la sua deposizione dovrebbe essere stralciata.

Khan era effettivamente alla guida? Per anni si è tentato non tanto di dimostrare che l’attore non lo fosse, quanto rendere indimostrabile il contrario. Fino a quando, il mese scorso, il driver di fiducia della famiglia Khan, Ashok Singh, si è presentato di sua sponte in tribunale dicendo – dopo 12 anni – che alla guida del fuoristrada c’era lui, è tutta colpa sua, Khan non c’entra nulla. Deposizione non accolta dai giudici senza però accusare Singh di falsa testimonianza.

Quando alla fine la sentenza è arrivata, la scorsa settimana, lo scollamento tra i princìpi legali ("la legge è uguale per tutti") e la percezione del rapporto colpa-punizione da parte dell’opinione pubblica si è mostrato in tutta la sua imponenza. Migliaia di fan hanno circondato il tribunale di Mumbai sostenendo il proprio idolo, mentre su Twitter piovevano messaggi di solidarietà a Salman Khan, “persona buona”, “il più altruista e gentile nell’ambiente”, fino ai fuochi d’artificio di Farah Khan, designer di gioielli e amica dell’attore, che si è spinta ad accusare il governo, che permette a tutta questa gente di fare una cosa così pericolosa come dormire per strada.

«È come dare la colpa al macchinista se uno muore cercando di attraversare i binari». Deliri che se da un lato vengono ricoperti dagli insulti e dalle risate amare della comunità twitter indiana, dall’altro si inseriscono alla perfezione in un contesto assolutorio a prescindere quando la vita normale si scontra con l’anormalità privilegiata dei divi del paese. Una licenza alla peculiarità che per assurdo (ma nemmeno troppo, assurdo) viene alimentata e protetta proprio dalle vittime della società iniqua indiana.

Salman Khan gode di una fama davvero al confine della divinizzazione tra le masse indigenti indiane; rappresenta il feticcio attraverso il quale molti indiani vivono una vita da sogno per interposta persona, attraverso le avventure del loro idolo sul grande schermo: forte, muscoloso, sex symbol per le donne, integro di quell’integrità che travalica il law and order, appunto, nella convinzione che non sempre quello che è legale sia anche giusto (e viceversa).

Per questo la linea difensiva del caso Khan, a guardar bene, è il proseguimento naturale dell’epopea cinematografica: i giudici non possono condannarlo perché “è persona buona”, con la sua fondazione Being Human porta avanti attività di solidarietà, un’azione che – sempre secondo la difesa – andrebbe compromessa da un’eventuale detenzione.
A Salman Khan, poco dopo la sentenza di cinque anni in carcere, è stata immediatamente garantita la libertà su cauzione fino all’8 maggior (domani), data entro la quale i suoi legali dovevano presentare la documentazione per andare in appello. L’intervento di Harish Salve, principe del foro indiano ed ex difensore dei due marò, ha portato alla sospensione della pena e un rinvio a giudizio fissato per quest’estate.

Il quotidiano online Dna India, intervistando la moglie e il figlio di Nurullah, ha avuto il merito di riportare le volontà reali della famiglia della vittima. Che non vuole vedere l’idolo Salman in carcere, ma semplicemente che faccia carità mirata e aiuti a «migliorare il nostro stile di vita». D’altronde Feroz, figlio di Nurullah, oggi ha 25 anni e, come quasi tutti i suoi coetanei, è fan sfegatato di Salman Khan, Che, incidentalmente, gli ha anche ucciso il padre.

[Pubblicato in versione ridotta su East online; foto credit: qz.com]