La morte di Mandela, per l’India, coincide con l’anniversario della demolizione della moschea Babri da parte di una folla di estremisti hindu. Esaltando i valori gandhiani portati avanti dal leader anti apartheid sudafricano, l’India può però imparare una preziosa lezione da Mandela: il perdono come strumento politico.
La notizia della morte di Nelson Mandela ha raggiunto l’India in un giorno altamente simbolico. Il 6 dicembre di 21 anni fa una migliaia di estremisti hindu, aizzati da una campagna politica promossa negli anni precedenti dal Bjp, rase al suolo a mani nude la Babri Masjid di Ayodhya (Uttar Pradesh), moschea realizzata nel 1527 dall’imperatore Babar della dinastia Moghul.
In seguito alla demolizione che, negli intenti politici della destra indiana, doveva lasciare spazio alla realizzazione di un grande tempio hindu dedicato al dio Ram, gli scontri comunitari tra hindu e musulmani in tutto il paese reclamarono oltre 2000 morti, 900 nella sola Mumbai controllata dagli sgherri della formazione estremista del Shiv Sena.
Mandela, simbolo della lotta contro l’apartheid, viene oggi ricordato nel paese come “un vero gandhiano”, parafrasando il tweet che lo staff del primo ministro Manmohan Singh ha inviato nella mattinata.
Il cordoglio per la morte di Madiba ha unito tutti gli schieramenti politici, con Narendra Modi – candidato premier per il Bjp alle prossime politiche del 2014 – che ha affidato sempre a Twitter le sue riflessioni:
“RIP Nelson Mandela. Il mondo ha perso un apostolo di pace e non-violenza che ha ridefinito il viaggio della sua nazione nel bene dell’umanità”.
“Molti di noi non sono stati così fortunati da vedere Gandhi-ji vivo. Siamo però benedetti per aver assistito alla vita di Nelson Mandela, che incarna gli stessi valori e ideali”.
In India la figura di Mandela è stata sempre considerata come una prosecuzione, dislocata in tempi e spazi diversi, della lotta per la pace del Mahatma. Un legame che le istituzioni indiane hanno saputo rimarcare insignendo Mandela nel 1990 del Bharat Ratna (la gemma dell’India, massima onorificenza civile dello stato indiano, unico cittadino non-indiano assieme all’attivista indipendentista pakistano Khan Abdul Ghaffar Khan) e nel 2000 dell’International Gandhi Peace Prize.
Il governo indiano, inoltre, ha annunciato cinque giorni di lutto nazionale per commemorare la morte del leader sudafricano.
Ma al di là del dolore e dei proclami dovuti a una figura della statura di Mandela, in India c’è chi approfitta della curiosa coincidenza di date per tracciare un parallelo tra l’opera di Mandela in Sudafrica e l’India.
Il portale Firstpost India ospita un’acuta riflessione di Sandip Roy che rilancia il tema di come lo spirito gandhiano sia andato perdendosi proprio nel paese che il Mahatma aiutò a rendere indipendente.
Scrive Roy:
“Mandela considerava il perdono come l’unica via da percorrere per un paese dove una maggioranza e una minoranza dovevano imparare a vivere insieme. Non provò a ottenere delle scuse dai suoi oppressori. Per lui fu chiaro che [il Sudafrica] non poteva essere né un paese a dominazione bianca, né a dominazione nera. ‘In ogni ipotesi di futuro, la magioranza avrà bisogno della minoranza. Non vogliamo buttarvi in mare’ ricorda nella sua autobiografia”.
Il concetto di perdono e pace non come obiettivi eterei e spirituali ma come agenda politica, come strumenti della dialettica all’interno di una società multireligiosa e multietnica, secondo Roy in India è stato puntualmente travisato, in particolare all’indomani dei fatti di Ayodhya.
“Questa è una lezione che i nostri politici hanno evitato di imparare poiché nel razziare moschee, bruciare treni e villaggi di pellegrini, respingere l’altro in mare vedono una scorciatoia nel guadagnare voti. Un elettorato diviso, sia esso sottomesso o trionfante, è visto come un elettorato più sicuro”.
Nella storia recente indiana i fatti che necessiterebbero di un corrispettivo subcontinentale della Commissione per la Verità e la Riconciliazione sudafricana, organo fortemente voluto da Mandela che dal 1995 raccolse testimonianze di criminali e vittime dell’apartheid, sono diversi: la persecuzione dei Sikh operata dal Congress, l’Emergency di Indira Gandhi, la Babri Masjid, i pogrom contro la comunità musulmana del 1992 e del 2002, il Kashmir…
Una lezione che l’India potrebbe apprendere dal suo “Gandhi di Johannesburg”.
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