Un riepilogo di due anni di indagini e mistificazioni, precisazioni sul ruolo dei marò a bordo della Lexie – e corrispettiva tutela legale – e un’analisi del Sua act del 2002, la legge federale indiana che l’Italia teme ma non per il rischio di pena di morte.
Sono passati quasi due anni da quel pomeriggio del 15 febbraio, quando al largo del Kerala – stato dell’India meridionale – i due pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine vengono uccisi, scambiati per pirati, dai colpi d’arma da fuoco provenienti dalla petroliera italiana Enrica Lexie. Il caso dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati d’omicidio, si è dipanato in tutta la sua complessità in condizioni mediatiche difficoltose: sia in India sia in Italia, in tempi, modi differenti, gli interessi della politica nazionale hanno filtrato e deformato le vicende legate alla morte dei due pescatori, mettendo l’opinione pubblica davanti a un collage schizofrenico di presunte verità, ricostruzioni artigianali, interpretazioni parziali, illazioni e ventate di nazionalismo che rendono ancora più confusionaria una vicenda già di per sé decisamente complessa.
Ci sono alcuni punti fermi sui quali poggiarsi per capire al meglio ciò che succederà nei prossimi giorni, quando la Corte suprema dovrà pronunciarsi sul ricorso italiano che vorrebbe i marò in Italia nell’attesa che vengano formulati i capi d’accusa da parte degli inquirenti indiani, in un ritardo considerato “inaccettabile” sia da Roma sia da Delhi.
Dal 2011 il Ministero della Difesa e Confitarma (Confederazione italiana armatori) hanno varato una convenzione che permette agli armatori di ingaggiare dei Nuclei Militari di Protezione (Nmp), formati da sei fucilieri di Marina, da imbarcare su navi cargo o petroliere per contrastare la minaccia della pirateria. Si tratta, a livello giuridico, del peccato originale alla base del “caso marò”: l’Italia è infatti il paese occidentale che ha fatto ricorso nel modo più estensivo alla protezione militare a bordo di imbarcazioni civili, inserendosi in una zona grigia del diritto internazionale entro la quale l’attività dei soldati italiani impegnati a difesa di interessi commerciali privati – e non in missioni internazionali anti-pirateria sotto l’egida della Nato o della Ue – è spogliata di quell’immunità funzionale garantita invece ai soldati in missione e, soprattutto, a bordo di navi da guerra.
Quando i marò, all’interno della cosiddetta “zona contigua” indiana, sparano contro il peschereccio St. Anthony dal ponte della Lexie, secondo l’India sono militari facenti funzione di contractor e, di conseguenza, perseguibili dal sistema giuridico nazionale secondo il Maritime Zones Act del 1976, che estende la giurisdizione indiana fino a 200 miglia nautiche. Indicazione contenuta nella sentenza del 18 gennaio 2013 emessa dalla Corte suprema, che toglieva il caso alla magistratura locale del Kerala affidandolo alla competenza federale di una Corte speciale formata ad hoc (una consuetudine, in India, niente a che vedere coi Tribunali speciali).
L’Italia inizialmente ha sostenuto che l’incidente fosse avvenuto in acque internazionali e che quindi la giurisdizione dovesse passare automaticamente a un tribunale militare italiano. Salvo poi affidarsi, nella speranza di una conclusione spedita della vicenda, al sistema giudiziario indiano, rinunciando di fatto all’apertura di un contenzioso legale in sede internazionale. Proprio qui, secondo le ricostruzioni di Palazzo, si è creata la frattura tra l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, deciso a spingere sulla giurisdizione esclusiva italiana, e Staffan De Mistura, l’uomo sul campo del governo italiano, più preoccupato di chiudere il caso in tempi brevi e senza infilarsi in una diatriba internazionale che avrebbe probabilmente causato l’irrigidimento e l’aggressività politica dell’India, reazione usuale quando il mito della superpotenza asiatica viene illuminato dai riflettori della comunità internazionale.
Da un anno, quindi, il faldone delle indagini compilato dalla polizia del Kerala – che, alla presenza di tecnici dell’Arma italiana, aveva provato la compatibilità dei proiettili ritrovati nei corpi di Binki e Jelastine con due fucili in dotazione al Npm della Lexie – è passato nelle mani della National Investigation Agency (Nia), una delle polizie federali indiane. La Nia, specializzata in terrorismo, prende in mano il caso poiché l’altra, il Central Bureau of Investigation (Cbi), al momento della sentenza era troppo oberato da altri fascicoli aperti e non avrebbe potuto garantire una conclusione delle indagini che permettesse un processo “equo e veloce”, parafrasando le richieste della diplomazia italiana.
Una scelta – per l’India – scellerata, poiché la Nia sarebbe vincolata all’utilizzo di una legge federale, il Sua act del 2002, che per i casi di omicidio prevede la pena capitale. Una legge, tra l’altro, mai presa in considerazione nella sentenza del 18 gennaio. Sul rischio di pena di morte per Latorre e Girone si è fatto, e si continua a fare, un gran baccano per nulla. Il governo indiano ha chiarito da mesi che in India la pena capitale si applica solo in casi di estrema gravità, “rarest of the rare”, e che l’omicidio di Binki e Jelastine non rientra assolutamente nel novero di questa categoria. Dal 1995 ad oggi l’India ha applicato la pena di morte solo quattro volte in casi di stupro seriale, sedizione e terrorismo. E i marò, come rimarcato in diretta tv dal ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid, per l’India “non sono terroristi”.
Escludendo quindi il rischio di impiccagione – come ha recentemente dichiarato l’ambasciatore dell’Ue a Delhi – la vera urgenza dell’escludere il Sua act dal dibattimento risiede in una peculiarità della legge; all’articolo 13 il Sua act indica che in presenza di prove sostanziali di colpevolezza come il ritrovamento di armi e munizioni compatibili col reato, prove di intenzione o di uso della forza letale, “la Corte dovrà presumere, salvo venga provato il contrario, che l’accusato abbia commesso il reato”. Significa che l’onere della prova viene scaricato sulla difesa, saranno gli avvocati dei marò a dover provare l’innocenza dei propri assistiti, in un quadro probatorio decisamente “nebuloso”.
La perizia balistica condotta dagli inquirenti del Kerala, alla presenza di due specialisti dei Carabinieri mandati da Roma, rileva che i fucili dai quali partirono i proiettili – traccianti – che colpirono Binki e Jelastine non erano segnati con la matricola di Latorre e Girone, ma di altri due marò al momento a bordo della Lexie, i fucilieri Renato Voglino e Massimiliano Andronico. Un tassello chiave delle indagini rivelato, nella primavera del 2013, da un articolo di Vincenzo Nigro pubblicato su Repubblica, dove venivano copiati stralci del rapporto interno della Marina redatto dall’ammiraglio Piroli.
Quando lo scorso autunno la Nia chiese di risentire tutti i testimoni già interrogati dalla polizia del Kerala nel 2012, facendo valere l’impegno di reperibilità firmato prima di rimpatriare, tutto il personale civile a bordo della petroliera si recò in India davanti agli inquirenti federali, tranne i quattro marò che completavano la squadra anti pirateria della Marina; Roma ritenne categorico non permettere ai militari di tornare in India, iniziando un braccio di ferro diplomatico che – assieme ai tradizionali ritardi della macchina burocratica indiana – contribuì a dilatare ulteriormente i tempi delle indagini. Alla fine, dopo settimane di trattative, si decise di tenere l’interrogatorio per via telematica, con una videochiamata fatta dall’ambasciata indiana di Roma. Il contenuto di quel confronto non è ancora stato reso pubblico.
Un altro passaggio poco chiaro della vicenda, considerando la discrepanza tra le matricole e gli arrestati, diventa a posteriori la consegna volontaria, da parte italiana, di Latorre e Girone alle autorità di polizia del Kerala. Dalla Lexie, attraccata al porto di Kochin la sera del 15 febbraio, per quattro giorni non scende nessun membro militare o civile dell’equipaggio, mentre ufficiali della polizia del Kerala salgono a bordo per condurre i primi interrogatori informali; Latorre e Girone – i più alti in grado del Npm – verranno consegnati solo il 19 febbraio, dopo quattro giorni di intense trattative a bordo della nave.
I due fucilieri iniziano così una detenzione soft durata ormai quasi 700 giorni, passati tra guesthouse, sezioni del penitenziario riservate al personale impiegato, hotel di lusso e appartamenti a disposizione dell’Ambasciata italiana a Delhi. In due anni non passeranno mai un giorno in carcere, godendo anzi di due licenze straordinarie per tornare in Italia a Natale e, in particolare, durante le ultime elezioni, quando l’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’agata provò a disattendere l’impegno preso davanti alla Corte suprema da Roma annunciando che Latorre e Girone, nonostante il documento firmato per il ritorno in India, sarebbero invece rimasti in Italia: un affronto maldestro all’autorevolezza della Corte suprema indiana, uno dei pochi organi istituzionali che nel paese gode di stima e fiducia quasi incondizionata, che rischiò di vanificare la trama diplomatica tessuta per mesi dall’inviato speciale Staffan De Mistura.
Le prossime settimane si annunciano decisive per la sorte di Latorre e Girone. La Corte suprema dovrà pronunciarsi sul ricorso avanzato dall’Italia circa l’esclusione del Sua act e il possibile ritorno in Italia dei due fucilieri in attesa che la Nia, il 30 gennaio, presenti i capi d’accusa.
Nonostante le strumentalizzazioni politiche sia italiane, sia indiane – nella frenesia collettiva delle ormai imminenti elezioni generali, previste per il mese di maggio – l’ingarbugliata vicenda Enrica Lexie si sta avvicinando alle sue fasi conclusive.
Che, visti i presupposti, potrebbero serbare altri colpi di scena.
[Scritto per Pagina99; foto credit: esercitoitalianoblog.it]