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In Cina e Asia – Ucraina: l’alleanza transatlantica chiama in causa la Cina

In Notizie Brevi by Agnese Ranaldi

I titoli di oggi:

  • Ucraina: l’alleanza transatlantica chiama in causa la Cina
  • Maratona di Wang Yi in Asia meridionale
  • Taiwan: il pressing di Pechino all’Onu
  • Corea del Nord testa supermissile intercontinentale
  • Cina e isole Salomone pronte a cooperare sulla sicurezza

La comunità internazionale ha discusso la questione della guerra russo-ucraina ai vertici Nato, G7, e davanti al Consiglio europeo, affrontando anche il tema del paventato sostengo a Mosca da parte di Pechino. L’obiettivo, secondo SCMP, era quello di dimostrare la compattezza dell’alleanza transatlantica di fronte alla “ingiustificabile” e “illegale” invasione russa dell’Ucraina. Il presidente statunitense Joe Biden ha fatto leva sulla profondità dei legami economici e commerciali che la Cina intrattiene col cosiddetto Occidente, in quella che ha definito “una conversazione molto diretta” col presidente Xi Jinping. “La Cina capisce che il suo futuro economico è più strettamente legato all’Occidente che alla Russia” ha detto all’incontro presso il quartier generale della Nato a Bruxelles. Il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg ha invitato Pechino a usare la sua “significativa influenza” per promuovere una risoluzione pacifica del conflitto nel più breve tempo possibile. A lui si è unito anche il premier Draghi, affermando che pur non essendoci stata alcuna condanna della Cina, spera vivamente che contribuisca in modo proattivo al processo di pace. I leader del G7 hanno invece rilasciato una dichiarazione in cui condannano con forza “la guerra di scelta del presidente Putin contro l’Ucraina indipendente e sovrana”, aggiungendo che saranno “al fianco del governo e del popolo dell’Ucraina”. Alcuni esperti hanno dichiarato che non ci sono effettivamente prove della fornitura di attrezzature militari vendute dalla Cina e impiegate da Putin in Russia. Ma la posizione di Pechino, che ha dichiarato all’ONU di non voler essere costretta a “scegliere da che parte stare”, è comunque poco incisiva agli occhi degli alleati atlantisti. Il rappresentante cinese alle Nazioni Unite Zhang Jun ha affermato che i “paesi in via di sviluppo (…) non sono parte di questo conflitto. Non dovrebbero essere coinvolti nella questione e costretti a subire le conseguenze (…) delle rivalità tra potenze”. Zhang ha poi sottolineato che è importante ora esercitare “la massima moderazione” e lavorare per una risoluzione pacifica quanto prima.

Maratona di Wang Yi in Asia meridionale

Il ministro degli esteri cinese Wang Yi è impegnato in un tour diplomatico in Asia meridionale, che lo ha portato giovedì a fare visita al governo talebano dell’Afghanistan. Nel bel mezzo delle turbolenze geopolitiche e securitarie che hanno fatto seguito all’insediamento del governo talebano – e ora alla guerra russo-ucraina – è importante per la Cina mantenere aperto il dialogo coi suoi vicini regionali. A Kabul, secondo l’agenzia di stampa ufficiale statale Bakhtar, Wang Yi è stato ricevuto personalmente dal ministro degli Esteri ad interim, Amir Khan Muttaqi. La visita arriva in concomitanza con la riapertura dei colloqui per riprendere l’estrazione del rame a Mes Aynak, una regione afghana in cui la China Metallurgical Group Corp aveva avviato dei progetti per 400 milioni di dollari l’anno, che sono stati sospesi per lungo tempo. Nell’intento di rafforzare i rapporti intra-regionali e limitare l’isolamento internazionale in cui si trova, Pechino ha programmato incontri anche con i rappresentanti del Pakistan, del Nepal e dell’India. In occasione della visita a Islamabad, Wang Yi ha dichiarato che è disposto ad aiutare i paesi islamici nell'”esplorazione di un percorso di sviluppo adatto alle loro esigenze”, ribadendo che con la Cina condividono l’identità di “paesi in via di sviluppo” e pertanto avrebbero “obiettivi condivisi”.

Taiwan: il pressing di Pechino all’Onu

Gli Stati Uniti dovrebbero intensificare gli sforzi diplomatici per limitare le pretese di Pechino sull’isola di Taiwan, secondo un recente rapporto del German Marshall Fund. Gli autori della ricerca mettono in guardia Washington dalla pervasività delle istanze cinesi, di cui si farebbero promotori alcuni dei funzionari di più alto profilo delle Nazioni Unite. La “crescente influenza coercitiva e corruttiva” della Cina sarebbe ulteriormente intensificata dagli “sforzi per promuovere e legittimare la sua agenda in tutto il sistema delle Nazioni Unite”. La comunità internazionale è tornata ad interessarsi delle sorti di Taipei dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che secondo alcuni esperti poteva rappresentare un precedente per Pechino per accelerare i suoi progetti di unificazione del territorio taiwanese e rivendicare così una volta per tutte il principio “Una sola Cina”. Secondo Jessica Drun e Bonnie Glaser, autrici del documento ed esperte di Taiwan, Pechino avrebbe fatto leva su una manipolazione del linguaggio impiegato in ambito ONU in riferimento alla risoluzione 2758, per avanzare le sue pretese in ambito internazionale. Il documento, approvato nel 1971, sancisce che la Repubblica popolare cinese è l’unico legittimo rappresentante della Cina. Tuttavia, non riporta alcuna menzione circa la questione della sovranità di Taiwan. Secondo il rapporto, la Cina avrebbe usato “la risoluzione 2758 delle Nazioni Unite e gli accordi bilaterali di normalizzazione con altri stati membri per affermare falsamente che il suo principio ‘Una sola Cina’ è una norma universalmente accettata”. Il documento del German Marshall Fund conclude sostenendo che gli Stati Uniti, che non riconoscono Taiwan come nazione indipendente ma non si sbilanciano neanche sul prendere una posizione netta a favore dell’indipendenza di Taipei, dovrebbero agire con più decisione per prevenire le rivendicazioni cinesi sull’isola. Gli autori del rapporto hanno affermato di aver ricevuto finanziamenti da organizzazioni governative taiwanesi per portare avanti la ricerca, pur avendo dichiarato che quelle espresse fossero opinioni personali.

Corea del Nord testa supermissile intercontinentale

Con il più grande test missilistico dal 2017 la Corea del Nord ostenta i progressi del suo programma nucleare. Il missile balistico intercontinentale (IBCM) è atterrato all’interno della zona economica esclusiva del Giappone giovedì, scatenando l’apprensione di Tokyo e Seul per la stabilità e la sicurezza regionali. La Corea del Sud ha risposto con una dimostrazione di forza per dare prova della “capacità” e della “prontezza” dei suoi equipaggiamenti, testando a sua volta una raffica di missili balistici. Il leader nordcoreano Kim Jong-Un aveva già dichiarato all’inizio di marzo che avrebbe presto implementato il suo programma spaziale lanciando satelliti per intensificare il monitoraggio degli alleati atlantisti. Sulla scia di queste dichiarazioni Pyongyang ha effettuato l’undicesimo test missilistico dall’inizio dell’anno, raggiungendo così una frequenza di lanci senza precedenti. Secondo gli analisti, il missile – celebrato dalla propaganda nordcoreana con un video di Kim stile Top Gun – sarebbe uno dei più grandi ICBM mobili su strada del mondo. La minaccia di possibili test nucleari, le esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud e la nuova presidenza conservatrice sudcoreana rappresentano, secondo gli esperti, le condizioni giuste perché possa verificarsi una pericolosa reazione a catena nella penisola coreana.

Cina e isole Salomone pronte a cooperare sulla sicurezza

Le isole Salomone hanno siglato un memorandum d’intesa con il ministero della Pubblica Sicurezza cinese, la scorsa settimana, per promuovere una cooperazione tra le rispettive forze di polizia. Anthony Veke, ministro della Polizia delle Isole Salomone, ha dichiarato giovedì di essersi accordato con Wang Xiaohong, il vice-ministro esecutivo del Ministero della Pubblica Sicurezza cinese, durante di un incontro virtuale tenutosi il 18 marzo. Le Isole Salomone hanno tagliato i rapporti diplomatici con Taiwan e virato verso Pechino nel 2019, ma la rinnovata prossimità con il governo cinese preoccupa alcuni vicini regionali. Queste piccole isole del Pacifico sono state sempre considerate dall’Australia come parte del proprio “giardino di casa”, e storicamente è stata proprio Canberra a fornire supporto per la sicurezza nazionale di Honiara, la capitale. L’Australia ha siglato un accordo bilaterale nel 2018 che riguarda infatti il dispiegamento della polizia e delle forze armate. Karen Galokale, segretaria permanente del ministero della Polizia, della Sicurezza nazionale e dei Servizi correzionali delle Isole, ha dichiarato a Reuters che “qualsiasi altro accordo sulla sicurezza generale sarebbe uguale all’accordo australiano”. Nonostante questo, il primo ministro australiana Scott Morrison ha affermato che “rispetto alla Cina” è piuttosto “preoccupata per qualsiasi attività abbia luogo nelle isole del Pacifico”.

A cura di Agnese Ranaldi