In Cina e Asia – La Cina risponde a D&G

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La Cina risponde a D&G

Non si placa la polemica innescata dall’ultima inopportuna campagna pubblicitaria di D&G. Il topic “mangiare con le bacchette”, in riferimento ai video pubblicati da D&G sui social cinesi in cui una ragazza cinese cerca di afferrare pizza e pasta con le chopstick, a mezzogiorno di ieri aveva totalizzato 120 milioni di visualizzazioni, attraendo i commenti piccati dei netizen e delle star cinesi. A gettare benzina sul fuoco ci hanno pensato alcuni screenshot stando ai quali Stefano Gabbana avrebbe definito la Cina “Ignorant Dirty Smelling Mafia” in una chat su Instagram. Prontissima come sempre la Cina ha risposto alle insinuazioni “razziste” con la pubblicazione di un video sulla tradizione conviviale delle bacchette in Cina. Di più. Secondo i media statali i prodotti D&G sono spariti dai siti di ecommerce Tmall, Jingdong e Suning e da altre piattaforme online come NetEase kaola, vipshop, yhd.com, xiaohongshu, secoo e ymatou. Non è il primo inciampo per il marchio italiano in Cina, criticato già lo scorso anno per i contenuti stereotipati delle sue campagne.

Centianai di studenti in fabbrica per il Singles Day

E’ servito il lavoro di oltre 100.000 persone per assicurare la riuscita di un altro Singles Day, la festa dell’ecommerce più redditizia al mondo, conclusasi pochi giorni fa con 23 miliardi di prodotti venduti. Tra loro centinaia erano studenti, mandati a lavorare nei magazzini gestiti da JD.com a Pechino e Kunshan per 2 dollari l’ora. Secondo le testimonianze raccolte da FT, i ragazzi sarebbero stati impiegati anche oltre l’orario standard in violazione della legge cinese. Casi simili avevano coinvolto nei mesi scorsi anche la Foxconn fornitrice di Apple ma JD sembra risentire particolarmente degli  aumenti salariali dato l’enorme numero di addetti alle consegne, che hanno raggiunto i 117.943 alla fine dello scorso anno rispetto ai 26.288 del 2013.

USA: Cina prima per riconoscimento facciale

Secondo il Face Recognition Vendor Test (FRVT) condotto dall’Istituto Nazionale degli Standard e della Tecnologia (NIST) sotto il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, gli algoritmi per il riconoscimento facciale sviluppati delle aziende tecnologiche cinesi si sono conquistati i primi cinque posti nella lista globale. La YITU Technology, società con sede a Shanghai, ha rivendicato le prime due posizioni, mentre gli algoritmi della società di Pechino SenseTime hanno conquistato il terzo e il quarto posto e quelli dell’Istituto cinese di tecnologia avanzata (SIAT) della Accademia cinese delle scienze il quinto posto. Secondo il rapporto “China’s Development Development 2018” pubblicato dalla Tsinghua University nel mese di luglio, la Cina è ormai il paese più attraente per gli investimenti e i finanziamenti nel settore dell’AI. Nel 2017, il valore di mercato dell’industria cinese ha raggiunto 23,7 miliardi di yuan (circa 3,5 miliardi di dollari), con un tasso di crescita che dovrebbe raggiungere il 75% nel 2018. Non a caso l’AI è diventata terreno di scontro con Washington, che già ha al vaglio nuove restrizioni sull’export verso la Cina di tecnologia avanzata.

La guerra commerciale fa bene all’agricoltura cinese

Come ha dichiarato più volte Xi Jinping, la guerra commerciale con gli Stati Uniti potrebbe rivelarsi un prezioso catalizzatore per il processo di ammodernamento dell’economia nazionale. Il settore agricolo – colpito dai dazi sulle importazioni di soia, grano e altri cereali statunitensi – sembra essere tra i primi ad aver risposto all’appello del presidente. Oltre la Muraglia, l’agricoltura impiega oltre 200 milioni di cinesi, circa 100 volte il numero degli americani, ma continua ad essere circa la metà meno produttiva che negli Usa a causa degli appezzamenti troppo piccoli e le tecniche di coltivazione obsolete. A un mese dall’applicazione della prima tornata di tariffe, il ministero cinese dell’Agricoltura e degli Affari rurali ha annunciato l’istituzione di 254 “città industriali agricole forti” come modello per il resto del paese, mentre si attenuano le resistenze sull’introduzione di semi geneticamente modificati. Rimangono tuttavia preoccupazioni irrisolte: prima tra tutte il rischio della perdita di migliaia di post di lavoro a causa della progressiva meccanizzazione delle coltivazioni.