In Cina e Asia – Hong Kong: vittoria tsunami per i prodemocratici

In Notizie Brevi by Alessandra Colarizi

Si sono concluse con il trionfo del fronte pro-democrazia le elezioni amministrative che ieri hanno visto i candidati anti-establishment aggiudicarsi almeno 347 seggi in 17 distretti, pari a quasi il 90% del totale. Il voto, giunto dopo sei mesi di proteste, ha un significato sopratutto simbolico dal momento che le amministrative costituiscono l’unica occasione in cui i cittadini possono eleggere direttamente la maggior parte dei seggi (452 su 479). Ma la vittoria di ieri avrà anche effetti concreti, assicurando ai democratici altri 117 dei 1.200 seggi nel consiglio elettorale, a cui spetta il compito di nominare il chief executive. La sconfitta è tanto più clamorosa se si considera il fatto che tradizionalmente il fronte pro-Pechino gode di una vasta maggioranza a livello locale grazie al supporto delle comunità originarie del Sud della Cina. L’affluenza alle urne è stata la più alta mai registrata dal handover del 1997 (2,94 milioni di votanti, pari al 71,2%), superando non solo quella del 2015 (47%), ma anche il 58% raggiunto alle legislative del 2016. Tra i dati più rilevanti, la vittoria di Jimmy Sham, il leader del Civil Human Rights Front malmenato due volte da misteriosi assalitori, e la sconfitta di Junius Ho, il candidato filocinese accusato di avere contatti con le triadi. In tutto sono almeno cinque gli attivisti del movimento Occupy del 2014 ad aver ottenuto un seggio. La risposta di Pechino al voto non si è fatta attendere: “qualsiasi cosa accada Hong Kong fa parte della Cina” ha avvertito il ministro degli Esteri Wang Yi, aggiungendo che “qualsiasi tentativo di rovinare Hong Kong, o addirittura danneggiare la sua prosperità e stabilità, non avrà successo”. Ma il governo locale promette di riflettere molto seriamente sul significato della sconfitta. Entrambe le parti sperano che la vittoria politica basti ad accontentare i manifestanti e a riportare l’ordine in città. [fonte: SCMP, SCMP]

Xinjiang: nuovi leaks incastrano Pechino

Nuovi documenti riservati aggiungono dettagli intriganti sulle detenzioni extragiudiziali nel Xinjiang. L’ultimo leak, riportato dall’International Consortium of Investigative Journalists, fa luce su aspetti che non erano ancora emersi dai Xinjiang Papers del New York Times. Innanzitutto, la natura coercitiva e ideologica del sistema di rieducazione a cui sono sottoposte le minoranze etniche musulmane. La parte più corposa dei cable è costituita da un manuale (il “telegram”), approvato dal capo della Commissione Affari politici e Legali del Xinjiang, che fa chiaro riferimento a ferree misure di sicurezza nei campi di prigionia e limitazioni della libertà dei detenuti. Pechino ha sempre sostenuto si tratti di “scuole di formazione professionale”. A ciò si aggiungono i “bullettins”, linee guida sull’uso massivo di tecnologia impiegata per individuare preventivamente i soggetti da rieducare. Questa sezione conferma l’esistenza di una Integrated Joint Operations Platform, un sistema di screening che attinge ampiamente ai dati ottenuti attraverso l’app mobile Kuai Ya e telecamere di sorveglianza. I China Cables fanno inoltre chiarezza sulla composizione demografica della popolazione reclusa: grazie alla vastità di informazioni personali raccolte per la prima volta sappiamo che “gli studenti” sono perlopiù persone di sesso maschile tra i 30 e i 59 anni, e non donne come suggerito dalla propaganda ufficiale. Sebbene le stime complessive siano ancora segrete, secondo l’esperto Adrian Zenz i nuovi documenti fanno supporre numeri anche superiori a quanto precedentemente ipotizzato. Questo vuol dire che i centri per la rieducazione potrebbero ospitare fino a 1,8 milioni di persone. [fonte: ICIJ, AP]

Scacco all’intelligence cinese?

Scoop o fake news? Quando si parla di Cina il confine tra i due mondi è quantomai sfumato. L’opacità del sistema politico cinese non aiuta a fare chiarezza quando emergono storie eclatanti come quella raccontata alla stampa australiana da Wang “William” Liqiang, 26enne del Fujian che, sostenendo di aver militato nei servizi cinesi, ha avanzato una serie di accuse pesantissime nei confronti di Pechino. Secondo il ragazzo, che dice di aver preso direttamente parte al rapimento del libraio di Hong Kong Lee Bo, il governo cinese avrebbe condotto operazioni di spionaggio e campagne di disinformazione tanto nell’ex colonia britannica quanto a Taiwan e in Australia. Le indiscrezioni coprono eventi di rilevanza mediatica come le proteste antiestradizione di Hong Kong e le elezioni taiwanesi, manipolate dal regime comunista attraverso l’erogazione di lauti finanziamenti al partito nazionalista filocinese. Wang, che oggi si trova a Sydney, ha fatto richiesta di asilo al governo australiano. La risposta della Cina non si è fatta attendere. A poche ore dalla pubblicazione dell’inchiesta su The Age, The Sydney Morning Herald, e 60 Minute, la polizia di Shanghai ha rilasciato documenti ufficiali dai quali risulta che “la talpa” sarebbe in realtà ricercata dalle autorità cinesi per una serie di frodi culminate nel 2016 in una sentenza (sospesa) a un anno e sei mesi di reclusione. Lo scorso aprile, l’Ufficio di pubblica sicurezza di Shanghai ha aperto un’altra inchiesta relativa a una truffa più recente. I governi australiano e taiwanese stanno indagando sul caso. [fonte: SCMP]

Dagli Usa una nuova stretta contro Huawei e ZTE

Questa volta è la Federal Communications Commission a individuare nei colossi cinesi delle telecomunicazioni “un rischio per la sicurezza nazionale”. Nella giornata di venerdì, l’agenzia governativa americana ha annunciato la restrizione di fondi federali per 8,5 miliardi di dollari agli operatori nazionali che si riforniscono dalle due aziende. Tra le misure approvate anche la richiesta di disinstallare e sostituire le apparecchiature in questione al momento in utilizzo. Huawei e ZTE hanno 30 giorni per contestare l’ordine, che se confermato diventerà effettivo non prima del prossimo anno. Il Congresso è già al lavoro per sbloccare un fondo da 1 miliardi di dollari con cui supportare i costi di smantellamento delle attrezzature a rischio. [fonte: SCMP]

Una roadmap per combattere l’invecchiamento della popolazione cinese

Pechino ha pubblicato il primo documento programmatico per contrastare il rapido invecchiamento della popolazione. Si tratta di una strategia in cinque punti che affronta il problema da una prospettiva di breve, medio e lungo termine fissando obiettivi rispettivamente per il 2022, 2035 e 2050. Le stesse tappe previste dalla modernizzazione socialista. Stando al documento, la Cina dovrebbe affrontare il problema dell’invecchiamento aumentando gli investimenti e i contributi sociali, creando una forza lavoro di alta qualità, migliorando i servizi sanitari e pensionistici, facendo uso di tecnologie avanzate e innovative e assicurando una maggiore protezione legale e sociale. Secondo stime ufficiose della National Community on Ageing, nel 2050 i cinesi over 60 saranno 487 milioni. Numeri che mettono a rischio la tenuta del welfare così come la crescita economica negli anni a venire.[fonte: SCMP]

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