Il vertice Kim-Trump e le speranze del Giappone

In Uncategorized by Marco Zappa

Fino a giovedì, Shigeo Iizuka, 79 anni, nutriva qualche speranza, un giorno, di rivedere sua sorella. Pochi giorni fa suo nipote, il figlio di sua sorella rapita da agenti segreti nordcoreani nel 1978, era andato negli Stati Uniti per incontrare, con altri parenti di cittadini rapiti in Corea del Nord, funzionari del governo di Washington.

Sentendo alla Tv della decisione del presidente degli Stati Uniti di cancellare il summit di Singapore previsto per il 12 giugno, però, Iizuka ha avuto un attimo di smarrimento. «Decine di volte abbiamo chiesto agli Stati Uniti di spingere per la risoluzione della questione dei rapimenti, ma quegli sforzi significano poco se non ci sono opportunità», ha spiegato Iizuka al quotidiano Mainichi Shimbun. E questa opportunità poteva essere proprio il summit di Singapore.

«Siamo stati così tante volte alla mercé delle circostanze e speriamo che la questione dei rapimenti sia risolta in isolamento da altre questioni che riguardano la Corea del Nord».

Altri sperano invece che un accordo tra Washington e Pyongyang possa aprire le porte alla risoluzione della questione che da decenni divide Tokyo dal Regno eremita e che con il governo Abe è tornata di pressante attualità. E, visto che il summit potrebbe essere posticipato, alcuni chiedono un impegno maggiore al capo del governo nel preparare il summit e iniziare a discutere parallelamente con Pyongyang.

«Il governo deve cogliere l’occasione al volo», ha spiegato sempre al quotidiano Mainichi. Non solo i parenti dei giapponesi rapiti da agenti nordcoreani, ma anche gli hibakusha — i pochi sopravvissuti dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki che da decenni chiedono un mondo senza atomica — hanno espresso il loro disappunto per un possibile annullamento del summit.

La Casa Bianca ha fatto sapere di non intendere più sedersi intorno a un tavolo con Kim a causa della “rabbia tremenda e dell’aperta ostilità” venuta negli ultimi giorni dalla Corea del Nord. Da Mosca il primo ministro Shinzo Abe ha fatto sapere di essere dispiaciuto della notizia, ma di avere fiducia nel presidente Trump e nel suo giudizio.

Dopo giorni di annunci e cambi di programma, ora l’ipotesi del summit del 12 giugno riprende corpo. Nei giorni scorsi la leadership nordcoreana aveva definito inaccettabili le parole del vicepresidente statunitense Mike Pence che domenica scorsa aveva detto che senza il totale smantellamento dell’arsenale balistico e nucleare di Kim che minaccia gli Stati Uniti, la Corea del Nord sarebbe finita “come la Libia”. Parole violente ed evocative: basti pensare alle ultime immagini pubbliche del dittatore libico Muhammar Gheddafi, catturato e ucciso da un gruppo di ribelli.

Esportare quel modello nella penisola coreana sarebbe impossibile, viste le diverse conformazioni geografiche ed etniche dei due Paesi. Non altrettanto impossibile, invece, un regime change indotto da Washington. Una soluzione del genere getterebbe nel caos l’intera regione e si ripercuoterebbe sugli stessi alleati degli Stati Uniti — Corea del Sud e Giappone in primis — che Washington sostiene di voler tutelare chiedendo il totale disarmo di Pyongyang.

Intercettando l’aria che tira a Washington, lo scorso weekend il presidente sudcoreano Moon Jae-in era volato a Washington per parlare direttamente con The Donald per chiedergli di restare fedele alla linea delle trattative. Sabato scorso, invece, Moon è tornato sul confine tra le due Coree per incontrare per la seconda volta in meno di un mese Kim Jong-un.

Anche questa volta si sono fatti ritrarre sorridenti, stretti in un abbraccio fraterno. Linea mantenuta dalla Corea del Nord — che, a giudizio di alcuni osservatori, si è finora dimostrata più diplomaticamente matura degli Usa — che nelle ultime ore ha diffuso le immagini dell’unico sitoper i test nucleari conosciuto, Punggye-ri — probabilmente già fuori uso da settembre 2017 — distrutto da una serie di detonazioni.

Tutti — anche a fronte delle ultime indiscrezioni per cui il vertice Trump-Kim potrebbe essere confermato il 12 giugno prossimo — si interrogano dunque sui veri motivi che hanno spinto Trump a fare doppiamente marcia indietro. Il vizio del gioco del presidente oppure, più semplicemente, l’impreparazione. Robert Kelly, professore di scienze politiche all’università di Pusan, sostiene quest’ultima tesi «L’amministrazione Trump sta procedendo nelle trattative molto rapidamente», ha spiegato Kelly alla Cnn. Senza la giusta preparazione, le cose, a Singapore, potrebbero farsi ancora più difficili.

di Marco Zappa

[Pubblicato su Eastwest]