Il Tibet, i principini e i burocrati

In by Gabriele Battaglia

Qin Yizhi, un "falco" vicino all’ex presidente Hu Jintao ed ex segretario del Pcc di Lhasa durante le rivolte del 2008, è stato nominato a capo della Lega dei giovani comunisti. Una ricompensa per uno che si è speso per la "rieducazione patriottica" dei tibetani. Intanto continuano le autoimmolazioni: toccata quota 109.
Grandi manovre pechinesi con il Tibet sullo sfondo. Qin Yizhi, vicepresidente del governo nella regione autonoma, è stato nominato segretario della Lega dei giovani comunisti, l’incubatrice da dove escono i tuanpai, i burocrati che contendono ai “principini” (taizidang) le più alte cariche della leadership cinese.

Si dice sia una mossa dell’ex presidente Hu Jintao, che al pari del neo-nominato Qin si è fatto le ossa sia nella Lega – un’organizzazione che conta 80 milioni di membri – sia nell’amministrazione della regione autonoma tibetana, prima di diventare numero uno cinese. Hu starebbe piazzando i propri pezzi da novanta nelle posizioni chiave, in attesa del rimpasto che tra cinque anni ridisegnerà il volto del comitato permanente del Politburo: la stanza dei bottoni, composta da sette persone, che di fatto governa la Cina.

Il 47enne Qin Yizhi è descritto dal South China Morning Post come un “falco”. In carica come segretario del Partito di Lhasa durante la rivolta del 2008 (19 morti), sarebbe soprattutto inflessibile sulle questioni religiose. La dissidente Tsering Woeser commenta negativamente la sua promozione, definendola “un’indicazione agli attuali funzionari tibetani che solo i duri possono ottenere una promozione”.

Qin – sostiene Woeser – si sarebbe soprattutto adoperato per la cosiddetta “educazione patriottica” dei monaci in Tibet. Tale nome designa una campagna in corso in tutta la Cina dall’indomani dell’”incidente” di piazza Tiananmen (1989), quando il movimento degli studenti fu represso nel sangue. Tesa a colmare il vuoto lasciato dalla fine del maoismo e finalizzata a riavvicinare le “masse” alla leadership del Partito, ha assunto nuovo vigore in Tibet dopo la rivolta di Lhasa del 2008.

La campagna, improntata sul nazionalismo, mira a “educare” le masse su come “opporsi al separatismo”, “proteggere la stabilità” e “appoggiare lo sviluppo” e consiste soprattutto in assemblee in cui alcuni “esperti” tengono discorsi e lezioni su leggi e normative dello Stato. In genere, non mancano la denuncia della “cricca del Dalai Lama” e spettacoli di propaganda.

Il Global Times esce con un articolo in cui si sottolinea proprio come l’educazione sia il migliore strumento per contrastare la catena di autoimmolazioni che si sussegue da un paio di anni nelle regioni tibetane. Si intitola significativamente “La giusta strada” e spiega che “risorse limitate e uno scarso accesso alle informazioni hanno tenuto molti [ragazzi] lontani di scuola e dato loro poche possibilità di avere contatti con il mondo esterno. Ma il numero crescente di auto-immolazioni ha spinto le autorità locali a garantire che i bambini frequentino di più la scuola, aiutandoli a stare lontano dall’influenza dell’estremismo religioso e del separatismo”.

I programmi lanciati nelle aree tibetane del Gansu e del Qinghai cercano di rendere effettivi per tutti i nove anni di educazione teoricamente obbligatoria, mentre altri tre anni di “scuola vocazionale” gratuita nei centri maggiori sono l’offerta aggiuntiva della provincia del Sichuan. Secondo l’articolo, sarebbero già 30mila gli studenti che ne hanno beneficiato.

Ma Dengming, preside di una scuola locale, racconta che ai ragazzi vengono offerte “lezioni giuridiche insieme a una consulenza psicologica per contrastare le immolazioni. Gli insegnanti inoltre incoraggiano gli studenti a condividere con le loro famiglie a casa ciò che imparano”. Tuttavia, denuncia il Global Times, si vedono ancora troppi religiosi minori di dieci anni nei monasteri dell’area.

Dalla contea di Aba, nel Sichuan, arriva intanto notizia di un caso strano e inquietante. La presunta autoimmolazione di una donna, la trentenne Kunchok Wangmo, ha portato all’arresto di suo marito, Dolma Kyab. Secondo il Global Times, l’uomo avrebbe in realtà strangolato e poi bruciato la moglie dopo una lite. Radio Free Asia e alcuni dissidenti sostengono invece che l’uomo sarebbe stato arrestato e incriminato dopo essersi rifiutato di assecondare la versione delle autorità, secondo cui la donna si sarebbe suicidata per problemi coniugali.

Dal febbraio 2009, le autoimmolazioni sono intanto arrivate a 109.

[Scritto per Lettera43; foto credits: asianews.it]