Il marchio 89

In by Simone

«Il governo dice che se non avesse represso il movimento studentesco, oggi non ci sarebbe la crescita economica. Sbagliano. Se non avessero abbattuto quel movimento, ci sarebbe meno corruzione. Oggi i giovani hanno pensieri pratici: cosa sarà della mia vita, il mio lavoro. La loro insoddisfazione si risolve comprando una casa, un’auto. Oggi non sorgerà alcun movimento giovanile, perché le loro preoccupazioni sono materiali».

Due anni fa quando si celebrò, in Occidente, il ventennale di Tian’anmen, Zhang Xianling tentò di raccontare la sua storia e quella di suo figlio. Morto a 19 anni sulle strade di Pechino. Non è facile per lei, non è facile per nessun cinese rapportarsi a quella data. Giugno, il 4, del 1989 è un insieme di parole vietate, anche se espresse numericamente (64): non se ne parla. Un trauma silenzioso e muto, ma che come ogni evento epocale ha ancorato le memorie e le vite.

Un po’ tutti i cinesi che hanno superato i 40 si ricordano dove erano durante quelle giornate. Quasi tutti del resto erano con gli studenti, non è quindi difficile capire come per molti il premio Nobel vinto da Liu Xiaobo e dedicato al massacro di Tian’anmen, rappresenti una sorta di ricompensa dalla storia. «Sono in estasi», ha commentato anche sul suo twitter alla notizia della vittoria di Liu Xiaobo, Wang Dan, ex leader studentesco, condannato più volte al carcere dal 1989 e ora residente a Taiwan, liberato dopo un intervento diretto di Clinton nel 1998. Tanti come il figlio di Zhang Xianlin non ce l’hanno fatta, altri invece, come Liu Xiaobo o Tan Zuoren, continuano a pagare.

C’è anche chi avrà sentito un’eco quanto mai lontana, come Li Lu: partecipa allo sciopero della fame e alle proteste del 1989. Poi va negli Usa, si laurea alla Columbia University, dove ascolta un intervento di Warren Buffett, il leggendario e decide che quella è la sua strada. Oggi è considerato l’erede di Buffett, pronto a rilevare la Berkshire Hathaway, una holding tra le più grandi al mondo. O come Lai Chee Ying  aka Jimmy Lai, ex 89, che tra Hong Kong e Taiwan prima ha lanciato giornali critici contro Pechino (nonché il marchio Giordano, popolarissimo in Cina) e poi NextMedia, le cui animazioni (da Tiger Woods a Berlusconi) sono divenute celebri nel mondo in questi giorni.

Partendo da chi ha svoltato, da chi ha superato il trauma ricreandosi una carriera e abiurando di fatto a molti dei sogni da studente, Bao Pu – editore di Hong Kong e figlio di Bao Tong, braccio destro del premier Zhao Ziyang fatto fuori per avere appoggiato gli studenti nell’89 – ha un’idea precisa: «è stata fatta una guerra propagandistica per anni, portando anche chi era vicino a quel movimento a rifiutarlo come un grande errore. Si dice fosse un movimento immaturo: certo, come tutti i movimenti che perdono. Se quei ragazzi hanno fatto un errore è stato sottovalutare di avere di fronte il Partito Comunista cinese».

Confusione: spesso in Occidente diamo per scontato una cosa molto semplice. La maggioranza dei cinesi concorda che l’intervento militare fu necessario, «per non fare la fine dell’Unione Sovietica»: un autentico spauracchio – quello della dissoluzione sovietica – che ha finito per confondere le idee anche agli occidentali, fiduciosi che la dissidenza cinese, potesse essere considerata alla stregua di altre che hanno portato a grandi cambiamenti. La Cina invece, con le sue tecniche di governo munite delle necessarie caratteristiche cinesi ha recuperato alla sua causa anche tanti che parteciparono a quella stagione di lotta.

Zhang Lijia nel 1989 a Nanchino, dove lavorava in una fabbrica di missili, fece una manifestazione di solidarietà con gli studenti di Pechino. Oggi è scrittrice affermata, ma vietata in Cina: non rinnega quel periodo, ma ritiene che «la classe media debba trovare più spazio in Cina per portare ad un cambiamento». Un rinnovamento che sia gestito dal Partito, democratizzato da elementi esterni cinesi e senza interferenze occidentali. Questo è un elemento basilare per capire perché – per molti ex 89 – oggi le regole sono cambiate. Chi paga ancora quella stagione, infatti, è una sparuta minoranza.
Persone che semplicemente meriterebbero di essere libere: Liu Xiaobo è il più noto, ma c’è anche chi come Tan Zuoren solo per avere citato il 1989 in una sua mail, è stato condannato a 5 anni di carcere: un espediente per fare pagare la sua ricerca sull’esatto numero di bambini morti nel terremoto del Sichuan. Attivista dei nostri giorni, ma con quel marchio indelebile, in un modo o nell’altro: il 4 giugno 1989.

[Anche su Il Fatto]