Il limbo del condannato, la pena capitale nel Sol Levante

In by Gabriele Battaglia

Siamo abituati a pensare alla pena di morte come alla più assoluta e grave punizione che gli ordinamenti contemporanei possano comminare al soggetto il quale ne viola i più basilari principi. Spesso non ci si sofferma però su come le concrete modalità di esecuzione della sanzione capitale possano aggiungere una ragguardevole cifra di dolore ad una pena già esiziale. Si pensi ad un ordinamento socialmente e giuridicamente evoluto quale quello giapponese Stupisce scoprire che nel sistema giudiziario del Paese del Sol Levante non solo si applichi ancora la pena capitale, ma ne si giustifichi un meccanismo applicativo inutilmente perverso.

Sebbene abbia aderito senza riserve alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici nel 1979, il Giappone stenta ancora a intraprendere serie iniziative per rispettarla. La Convenzione infatti impegna i paesi firmatari in una politica di graduale diminuzione nell’applicazione della pena capitale fino alla sua completa eliminazione dall’ordinamento. Tokyo, invece, giustifica il suo permanere in vigore con il favor di cui godrebbe tale pena presso la popolazione.

L’applicazione della pena risulta poi disciplinata minuziosamente in ogni suo aspetto eccetto uno, forse il più rilevante, ovvero il tempo dell’esecuzione.
Ad oggi vi sono 128 persone nel braccio della morte nel paese del Sol Levante, tra queste, tre vivono in carcere da oltre trent’anni, sotto la minaccia continua dell’esecuzione pendente.

Tra questi vi era Masaru Okunishi, deceduto per la vecchiaia in carcere il 4 ottobre 2015. Aveva trascorso 46 anni nel braccio della morte, vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo e non smettendo mai di proclamare la propria innocenza.

L’esecuzione, quando avviene, non viene comunicata in anticipo al condannato. L’applicazione della pena capitale viene infatti comunicata al detenuto usualmente con solo una o due ore di preavviso. Ogni giorno, per mesi, anni, decadi, questi sa che potrebbe essere giustiziato da un momento all’altro.

Qualche osservatore aveva a un certo punto iniziato a ritenere che questa lunga attesa fosse in realtà positiva per i detenuti. Essa poteva infatti risolversi in una abolizione de facto della pena di morte nel paese. Basti pensare che dal 2010 in Giappone non erano più state eseguite condanne capitali.

A partire dalla fine del 2012, però, il governo giapponese ha ripreso a dar corso alle esecuzioni. La decisione dell’ex ministro della Giustizia Sadakazu Tanigaki di mandare a morte tre detenuti a febbraio 2013 e altri due ad aprile dello stesso anno ha segnato un cambio di clima. L’esecuzione non è più una minaccia remota. Anzi, la vita dei detenuti nel braccio della morte è di fatto, a tutt’oggi, in balia dei capricci della politica.

Il governo Abe ha dato corso sistematicamente e con rinnovato vigore alle condanne e non pare intenzionato a cambiare rotta, nonostante le forti critiche da parte delle organizzazioni internazionali e il sensibile, sebbene ancora minoritario, dissenso interno.

Facile dunque rendersi conto di come il condannato si trovi a vivere in uno stato di continua ed assoluta incertezza, e come questo costituisca un trattamento degradante e inumano. Molti detenuti che attendevano l’esecuzione hanno sviluppato una serie patologie nervose.

La legge giapponese impone che i condannati affetti da malattie mentali non possano essere giustiziati. A causa della rigida politica di segretezza applicata dall’amministrazione penitenziaria nella gestione di questi casi, e della mancanza di un controllo esterno ed imparziale, però tali patologie spesso non vengono fatte emergere.

Le iniziative del governo giapponese sul tema ci sono state. Al fine dichiarato di alleviare le sofferenze dei condannati a morte sono state infatti adottate una serie di leggi a tutela del cosiddetto shinjo no antei, ovvero del «mantenimento della pace mentale del condannato a morte». Tali norme vengono però utilizzate in molti casi come strumento per limitare i contatti con l’esterno del detenuto, il quale viene separato dagli altri carcerati, difficilmente può accedere a contatti con l’esterno e, se vi riesce, è sempre sorvegliato da guardie carcerarie per tutta la durata dell’incontro.

In certi casi tali provvedimenti hanno finito per aggravare le condizioni dei detenuti.

Fin dal 1873 la pena di morte in Giappone viene eseguita per impiccagione. Per molti detenuti, lo si può immaginare, la morte è una liberazione dall’incertezza e dalla snervante attesa in cui sono costretti a vivere, soli, spesso per moltissimi anni, aspettando che qualcuno, chissà dove, si prenda la briga di decidere del loro futuro, di troncare le loro vite, nel giro di un’ora.

Un recente convegno organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con l’alto patronato dell’Ambasciata Italiana in Giappone e della Lega parlamentare per l’abolizione della pena di morte della Dieta Nazionale del Giappone, tenutosi presso la House of Representatives di Tokyo lo scorso 22 ottobre, ha riacceso i riflettori sull’annosa questione della pena di morte in Giappone, e sulle tanto peculiari quanto crudeli modalità con cui viene applicata.

Al convegno hanno partecipato Seiken Sugiura e Hideo Hiraoka, due ex Ministri della Giustizia giapponesi, nonchè il Ministro della Giustizia delle Filippine, Manuel G. Co.
La presenza di quest’ultimo è significativa perché le Filippine sono un paese che, nonostante l’elevatissimo tasso di criminalità, ha recentemente abolito la pena di morte e si è fatto portavoce della sensibilizzazione internazionale sulla questione.

Da segnalare anche l’intervento della sorella di Iwao Hakamada, incarcerato nel 1966 e condannato a morte nel 1968, quindi scarcerato perché innocente e vittima di un errore giudiziario nel marzo 2014, dopo 47 anni nel braccio della morte.

* Riccardo Berti (riccardo.berti.vr[@]gmail.com) è avvocato del Foro di Verona, autore del libro "Victim-Offender Reconciliation in the People’s Republic of China and Taiwan" (Palgrave 2016), ha partecipato a numerose conferenze in ambito penale e criminologico in Asia, concentrando le sue ricerche sui tratti peculiari ed originali delle tradizioni asiatiche e sui loro riflessi sul diritto di questi paesi.