Il libero scambio può fiorire nel Pacifico, alla faccia dei dazi di Trump

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Cresce la tensione tra Usa e Giappone, che chiede l’esenzione dalle nuove tariffe. Ma intanto la firma del maxi- accordo Cptpp disertato dagli Usa offre a Tokyo una valida alternativa. E attira anche i Paesi asiatici più dinamici, spaventati dal protezionismo statunitense.


Sabato 10 marzo, mentre si trovava a Bruxelles per incontrare i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti, il ministro del Commercio e dell’Industria giapponese Hiroshige Seko ha dovuto riconoscere il fallimento della sua missione.

Pochi giorni prima l’amministrazione Trump aveva annunciato l’istituzione di nuovi dazi sulle importazioni di acciaio (25 per cento) e alluminio (10 per cento). Seko era a Bruxelles anche per tentare una mediazione con l’amministrazione americana. Tokyo vuole essere esentatadal provvedimento, come Messico, Canada e Argentina — per ora solo su base verbale.

«Le esportazioni giapponesi di acciaio e alluminio non hanno nessun impatto sulla sicurezza nazionale Usa», ha spiegato Seko, senza nascondere una certa irritazione. «I dazi — ha proseguito — rischiano di avere un impatto sul commercio multilaterale e di bloccare i mercati mondiali».

Tuttavia, alle richieste del ministro giapponese il rappresentante per il commercio della Casa Bianca Robert Lighthizer ha fatto spallucce: nessuna risposta, solo dettagli sulle tempistiche e le procedure con cui saranno applicate le nuove tariffe. La Casa Bianca ha un deficit commerciale con Tokyo di oltre 68 miliardi di dollari e intende usare i dazi in una sorta di «piano di rientro».

Se il Giappone non dovesse ottenere lo stesso status privilegiato concesso a Canada, Messico e Argentina, le tensioni commerciali con gli Stati Uniti potrebbero inasprirsi. Seko ha già annunciato che il suo governo potrebbe ricorrere — con l’Unione europea — al Wto per chiedere la sospensione dei dazi. Si ritornerebbe a una situazione simile a quella vissuta tra gli anni ’80 e ’90, con l’allargamento delle quote di mercato americano dei produttori giapponesi e il ricorso a misure di ritorsione da parte delle amministrazioni statunitensi, financo ad accordi valutari utili ad aggiustare il rapporto dollaro-yen.

Oggi a differenza di allora, Tokyo ha delle alternative valide al commercio con Washington, molte a una distanza geografica relativamente inferiore.

Lo stesso giorno in cui Trump annunciava l’istituzione di nuovi dazi doganali, l’8 marzo scorso, il Giappone firmava a Santiago del Cile con altri dieci Paesi affacciati sull’Oceano pacifico un accordo di libero scambio ad ampio raggio: il Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership (Cptpp). L’accordo, orfano degli Stati Uniti che ne sono usciti a gennaio dello scorso anno, è stato difeso fino all’ultimo da tutti gli altri firmatari originali, in particolare Giappone, Australia, Canada e Messico. Gli Stati Uniti, il Paese che più di tutti dal dopoguerra a oggi aveva difeso il libero scambio, sono stati superati nell’apertura del mercato interno perfino da Paesi come il Vietnam, che, almeno sulla carta, è una Repubblica socialista.

Si tratta di uno dei più importanti accordi del suo genere nella storia contemporanea: varrà il 13,5 per cento del Pil globale — poco meno della metà del Tpp con gli Stati Uniti — e riguarderà all’incirca 500 milioni di persone. L’accordo taglia decine di migliaia di dazi e garantisce i diritti di proprietà intellettuale per i Paesi firmatari. Una spinta notevole per i Paesi esportatori come lo stesso Giappone. «Gli Stati Uniti hanno ceduto la propria leadership commerciale all’Asia», ha spiegato al Nikkei Shimbun, principale quotidiano economico giapponese, Deborah Elms, direttrice dell’Asian Center di Singapore. «Questo dimostra quanto il nostro mondo sia ormai alla rovescia: gli Stati Uniti hanno guidato l’iniziativa del Tpp nei primi giorni, sono rimasti nell’accordo per trarne profitto, ma alla fine se ne sono tirati fuori e sono andati in una direzione totalmente opposta — e saranno danneggiati dall’esserne rimasti fuori».

L’assenza degli Stati Uniti nel patto inciderà sulle proiezioni di crescita di alcuni Paesi. Il Vietnam, ad esempio, prevedeva di aumentare l’export di alcuni beni di consumo — in particolare l’abbigliamento — del 30 per cento su base annua. Inoltre, Washington avrebbe controbilanciato lo strapotere cinese in Sudest asiatico e in tutta l’area euro-asiatiaca interessata dal progetto della Nuova via della Seta.

L’effetto del Cptpp sulle economie dei Paesi firmatari è ancora tutto da valutare. C’è però un tratto molto chiaro, di natura politica. A stretto giro dalla cerimonia della firma del patto a Santiago sono arrivate manifestazioni di interesse da parte di altri Paesi dell’area interessati ad entrare nell’accordo, come Corea del Sud — anch’essa spaventata dalle possibili ripercussioni dei dazi di Trump -, Thailandia e Indonesia su tutti.

Paesi in piena crescita, decisi, come gli altri firmatari, se non di più, a mostrare di potercela fare. Anche senza l’America.

di Marco Zappa

[Pubblicato su Eastwest]