Il lama teenager che piace a Pechino

In Uncategorized by Simone

Ha 16 anni, ha un blog e vuole imparare le lingue. E’ il VII Reting Rinpoche voluto da Pechino, è un «Buddha vivente amante del Partito Comunista Cinese, della madrepatria socialista e del Buddismo tibetano». E intanto siamo a quota 99 autoimmolazioni e la situzione in Tibet è sempre più tesa.
Ormai ha 16 anni Sonam Phuntsok, il tibetano che nel 2000 è stato riconosciuto dal governo cinese come Reting Rinpoche, ovvero quella figura che, nella complicata ruota del buddhismo tibetano, è incaricata di educare i nuovi lama e ha giocato un ruolo fondamentale nel riconoscere la reincarnazione dell’ultimo Dalai Lama. All’epoca avevano protestato anche i monaci dello stesso monastero di Reting perché il tentativo di Pechino di avere sempre più voce in capitolo nella scelta delle reincarnazioni dei lama era evidente.

Nel suo primo discorso pubblico Sonam Phuntsok ha messo sullo stesso piano il patriottismo e l’amore per la religione. Proprio quello che Pechino si aspettava quando ormai tredici anni fa si è preposta di formare un «Buddha vivente amante del Partito Comunista Cinese, della madrepatria socialista e del Buddismo tibetano». Un atto «un atto illegittimo e non valido» secondo il governo tibetano in esilio. E intanto nelle regioni tibetane le autoimmolazioni sono arrivate a 99 da marzo 2011.

Ora il settimo Reting Rinpoche, figura chiave della gerarchia dei Lama tibetani, è anche entrato nel Comitato tibetano della Conferenza Consultiva politica del popolo cinese nonostante abbia solo 16 anni. Il Reting Rimpoche è di fatto il “vescovo” del monastero Reting di Lhasa, ma la sua figura ha assunto un ruolo chiave in tempi recenti, proprio per il suo contributo fondamentale alla scoperta del XIV Dalai Lama, ovvero l’attuale premio Nobel in esilio. Proprio per questo precedente il governo tibetano in esilio teme che le gerarchie comuniste di Pechino vogliano usare il giovane Sonam Phuntsok per scegliere un XV Dalai Lama che incontri il loro favore.

In un intervista al China Daily, il giovane Reting Rinpoche ha espresso tutti i desideri di un teenager: imparare le lingue, navigare in internet e curare il suo blog sul buddhismo che vanta, a suo dire, circa 5mila fan. Ma ha anche espresso la volontà politica di tenere assieme patriottismo e religione. Per non saper né leggere né scrivere, non nomina mai il Dalai Lama, ma sia in uno dei suoi ultimi post che nella stessa intervista ha sostenuto che “non importa chi sia il leader, l’importante è che si interessi e tratti bene le persone”.

L’intervento pubblico del VII Reting Rinpoche ha fatto scalpore proprio per la situazione di tensione che si va delineando in Tibet. Le autoimmolazioni sfiorano quota cento e Pechino continua ad accusare il Dalai Lama di incitare a questi atti. Nel frattempo i tibetani continuano ad accusare il governo cinese di reprimere la loro religione e di “erodere” la cultura tradizionale. Pechino nega, ma ciò che è certo è che sono sempre di più i cinesi di etnia han a trasferirsi nelle aree tibetane. E d’altro canto è vero ciò che sostiene il governo, ovvero che continua a investire in Tibet per migliorare le infrastrutture e garantire migliori condizioni di vita. Uno sviluppo “con caratteristiche cinesi”, in ogni caso che punta alle risorse naturali e al turismo di massa sul tetto del mondo.

Spaventati dalle forme di protesta individuali che si vanno sviluppando, Pechino si è ancora più irrigidita, se possibile. La scorsa settimana i tribunali della Repubblica popolare hanno condannato otto tibetani per aver aiutato chi si è autoimmolato. Un uomo è stato condannato a morte con due anni di sospensione, e gli altri sono stati condannati a pene che vanno dai 3 ai 12 anni di reclusione, secondo quanto riportato da Xinhua, l’agenzia di stampa statale.

In generale il giro di vite in risposta alle autoimmolazioni a loro volta scatenatesi dopo la repressione delle rivolte di Lasa del 2008, secondo quanto riportato da un funzionario di polizia di etnia tibatana intervistato dal New York Times, ha trasformato il Tibet in "una prigione a cielo aperto". Anche lui, come alcuni altri agenti di polizia di etnia tibetana, starebbe pensando di dimettersi dal suo incarico.

"Lhasa era un luogo sacro per il buddhismo. Ora è un luogo sacro per il marxismo-leninismo", ha spiegato. "Ogni giorno ci sono incontri in cui leader più o meno importanti ti dicono che il mantenimento della stabilità" – weiwen in cinese – "è la cosa più importante. Lhasa non è più un luogo sacro buddista". E ha aggiunto: “Sto cominciando ad odiare il mio lavoro. Non è davvero possibile continuare a farlo. Alcuni hanno già dato le dimissioni".

Il giro di vite include anche il divieto per i tibetani delle regioni periferiche, come le province del Qinghai e del Sichuan, il cosiddetto Tibet esterno, di entrare nella regione autonoma. I cinesi etnicamente han, invece, possono passare rendendo ancora più evidente la contraddizione legale per cui sono i tibetani che non possno più entrare in Tibet.

[Scritto per Lettera43; foto creits: claudearpi.blogspot.com]