Gli anni novanta vedono nascere quello che oggi viene chiamato documentario e cinema indipendente, ovvero un cinema il cui modo di produzione prescinde, volontariamente o meno, dagli studi statali e dal sistema nazionale di finanziamento e distribuzione. I documentaristi che cominciano a filmare in questo periodo, impregnato in tutto e per tuto di “post”, presupponendo con esso il dopo Tian’anmen 1989 – ma anche uno scenario post moderno, post socialista, post guerra fredda, etc… – vogliono cimentarsi nel terreno politico/ideologico: pensano e si augurano che senza l’autorizzazione e il finanziamento del governo possano trovare il modo di arrivare alla realtà senza discorsi mediati né mediatici, confrontare e chiarificare queste istanze, malgrado siano invasi da “nascoste lotte di potere” che durante la decade degli anni ottanta si andarono producendo negli studi della CCTV(1) o nelle case produttrici statali.
Forse la linea estetica che meglio riassume l’ethos originale dei documentari indipendenti cinesi è il xianchang(2). Nelle parole di Wu Wenguang, uno dei pionieri del movimento, “xianchang rappresenta un’operazione cinematografica nel tempo presente in virtù del fatto di essere presenti sulla scena” (3). Questo stare “in atto”, significa sempre stare in relazione, tanto in maniera fisica quanto emotiva, con il soggetto o con i soggetti che occupano la propria posizione spazio-temporale configurando così quella del soggetto realizzatore. È un trattamento etico ed estetico della coscienza di realtà situata tra soggetto ed oggetto, “è una pratica e una teoria cinematografica di spazio e temporalità, che è interpellata con un senso di urgenza e responsabilità sociale” (4).
L’estetica del xianchang si oppone al formato illustrato dei documentari precedenti o del report mediatico/televisivo poiché, come filosofia ancorata al presente, pretende di prescindere da tutto ciò che è meccanico e pianificato, presenta una simpatia per la spontaneità. Nella sua forma più genuina, non c’è una sceneggiatura né voci non registrate, non ci sono commenti del realizzatore che danno una spiegazione o soluzione a ciò che si mostra.
L’inaspettato, l’imprevedibile, ciò che rende l’unico l’unico, è ora la misura estetica, dal momento che vuole catturare un momento in apparenza irrilevante, ma eterno poiché per nulla uguale ad un altro. Tale spontaneità ha registrato e registra momenti terribili, scintille di urgenze, situazioni radicalmente urbane ancorate nella sua condizione, per nulla simili nel fondo a echi di altri tempi. Gru e rovine, strade semi realizzate o semi distrutte, distruzioni di massa, trasferimenti di interi quartieri, nuove periferie, auto, moto, autostrade, centri commerciali al fianco di piccoli negozi di strada, ville lussuose e baraccopoli di cartone. Uno scenario spaventoso, quasi trent’anni di “riforma e apertura”, che i documentari trasformano in significati e in un’arte dalla pretesa immediatezza.
Perché effettivamente uno dei centri prediletti del nuovo formato documentario è la città cinese, scenario dove si sviluppano molti dei film che appartengono a questo filone, matrice e condizione di molte sue supposizioni estetiche e politiche. Questa ossessione per le condizioni della città contemporanea risponde a una situazione socio-economica concreta: è un’altra delle reazioni artistiche al più rapido processo di urbanizzazione mai visto e che la Cina fa suo in modo stellare. I realizzatori si ri-localizzano nelle città cinesi, registrano la sua costruzione/distruzione perpetua, con i suoi paesaggi di immondizia ed edificazioni ultramoderne, macchinari e terreni, e la gran massa che alimenta, nello stesso tempo in cui ne è divorata: le persone appena arrivate dall’interno del paese, i disoccupati, i marginalizzati e gli emarginati e tutti questi milioni in più che nella grande superproduzione (trans)nazionale sono rimasti senza documenti.
La velocità della trasformazione che inizia la “marcia verso il mondo” degli anni ottanta è esponenziale, aumenta nella misura in cui avanza e sembra che letteralmente non lasci tempo alle riflessioni sulla trasformazione stessa. Alla fine pare permettere solo di registrare, documentare e salvare quello che sparisce mentre si salva, come catturare un presente radicale, un “in atto” che non ha futuro.
La produzione di documentari indipendenti prende il via dall’anno 2000: le nuove telecamere DVD, economiche e semplici da usare, fanno sì che più e più gente si metta a registrare ciò che li circonda, del loro interno, di una identità alla piena ricerca di sé. In questo modo il principio etico-estetico del xianchang si aggiunge a partire da ora con una coscienza ogni volta più perplessa della demolizione e del trasferimento, di un chaiqian (5) non solo dello spazio e del tempo, non solo dell’edificio o del quartiere, ma dello stesso soggetto, realizzatore, residente o migrante, che deve ri-localizzarsi e ribellarsi contro la demolizione che minaccia la sua stessa identità.
Xianchang e chaiqian sono allora le due facce estetico-esistenziali del documentario cinese, entrambe esprimono una ricerca di identità e articolano un desiderio disperato di permanenza di ciò che si percepisce destinato a perire. Hanno il compito, come altre espressioni artistiche, di rivendicare e fare apparire nella sfera condivisa della vita pubblica, visibile, quello che resiste ad essere dimenticato, quegli attori che, riconfigurando il centro, vivono ai margini. Mostrano che, nonostante le condizioni di partenza, i nodi continuano a crearsi e ad esistere proprio come conseguenza di queste condizioni, che la formazione e lo spazio del “tessuto sociale” si ribella contro la scomparsa inventando nuove forme di solidarietà e sopravvivenza.
In Vagabondando a Pechino [流浪北京:最后的梦想者 ], Zhang Xiaping, una dei cinque artisti/vagabondi la cui quotidianità registra il documentario, ha un collasso nervoso di fronte alla telecamera, chiedendosi “Che merda sono io? Che merda sono io?”. In Mi sono laureato! [我毕业了]uno studente scoppia a piangere quando gli si chiede del suo immediato futuro. In Anziani [老头] la telecamera riprende l’accesa discussione all’interno di un vecchio matrimonio e lei piange perché si sente intrappolata nella città. Ritorno al Ponte della fenice [回到凤凰桥 ] mostra l’intima conversazione tra ragazze di campagna e i loro amori persi nei tuguri in affitto delle periferie pechinesi. Tutte queste scene, molte delle quali raggruppate in piani soggettivi, sono xianchang. In Via Meishi [煤市街] si registra la resistenza alla voragine olimpica mentre sparisce ciò che questa divora. Demolizione e trasferimento [钉子户] registra le ultime “case inchiodate”6 di un quartiere che già non esiste più. Sanyuanli [三元里 ] e Fluttuante [漂]sperimentano con l’immagine un’estetica del processo che ha dimenticato il suo inizio e fine. Questi documentari parlano di una empatia tra i soggetti, di una urgenza condivisa. E mostrano, tutti, un paesaggio denso di emozione di una città piena di rovina e trasformazione, un chaiqian umano in atto.
Note:
1- China Central Television, n.d.t.
2- 现场 letteralmente “in atto”, termine usato anche per indicare concerti e performance dal vivo, n.d.t.
3- WU WENGUANG (ed.), Xianchang (Document), Tianjin Shehui Kexueyuan Chubanshe, Tianjin: 2000, pp.274
4- ZHANG ZHEN, “Building on the Ruins: The Exploration of New Urban Cinema of the 1990´s”, en WU HUNG et al (eds.), The First Guanzhou Triennial: Reinterpretation: A Decade of Experimental Chinese Art (1990-2000), Guanzhou/ Chicago: Art Media Resources, 2002, pp. 113
5- Chaiqian (拆迁) è il termine che appare sui muri, sopratutto sui muri di edifici antichi e poveri, che saranno a breve demoliti. Negli ultimi tempi ho osservato la proliferazione di questo simbolo in quadri, foto, magliette, tazze e altri oggetti. Sembra che si stia trasformando in un simbolo commercializzato della postmodernità disincantata urbana.
6- Ovvero le 钉子户 dingzihu, le abitazioni di chi si oppone a demolizioni e sgomberi, case circondate da macerie, simbolo della resistenza contro i piani di urbanizzazione dall’alto, n.d.t.