Il destino di Aung San Suu Kyi: libera

In by Simone

Se si escludono le sporadiche visite di avvoccati e dottori, per sette anni, da quando cioè il regime militare la mise per la terza volta agli arresti domiciliari, le due domestiche, Win Ma Ma e Khin Khin Win, sono state le uniche compagne di prigionia di Aung San Suu Kyi. Ieri, invece, erano in migliaia ad attendere la leader dell’opposizione birmana fuori dalla sua casa-carcere sulle sponde del lago Inya, nel cuore di Rangoon. Vestita di bianco, la sassantacinquenne premio Nobel per la Pace è stata accolta da un boato. “University Avenue, la strada dove vive Aung San Suu Kyi, si è trasformata in una festa.

In migliaia si sono precipitati all’ingresso dell’abitazione”, ha scritto Jack Davies, inviato del quotidiano Guardian nell’ex capitale birmana. “Ci sono persone che piangono apertamente, altri ballano e cantano, ci sono caroselli di macchine”. Addirittura, ha raccontato il giornalista britannico, c’è stato chi ha osato deridere gli agenti in assetto antisommossa che presidiavano la zona.

Un fatto inusale, ha precisato, in un Paese dove la poliza e considerata il corpo più brutale dell’apparato repressivo. D’altra parte la gioia covava da quando, il giorno prima, era stata annunciata la firma del capo supremo del regime, il generale Than Shwe, sull’ordine di scarcerazione. Un’attesa resa ancora più trepidante per le notizie che davano Aung San Suu Kyi libera già nel pomeriggio di venerdì.

I sostenitori hanno dovuto aspettare altre ventiquattro ore, ma alla fine la premio Nobel ha varcato il cancello di casa. Quello stesso che nei momenti di maggiore tensione nel Paese era circondato da ingenti misure di sicurezza. “Dobbiamo lavorare insieme per raggiungere il nostro obiettivo”, è stato il messaggio lanciato dalla Lady ai suoi sostenitori, cui ha voluto dare anche la “prima lezione politica” dopo il rilascio,  invitadoli ad andare alla sede del parito che contribuì a fondare nel 1988, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), per parlare e discutere con lei. È la conferma di quanto ricordato mercoledì dal suo avvocato, ossia che la Signora non avrebbe accettato condizioni al suo rilascio, tanto meno l’ipotesi di rinunciare alla lotta politica e al suo ruolo di guida dell’opposizione. Suu Kyi è stata, ed è tuttora, il simbolo del movimento democratico nel Paese dei pavoni.

Figlia del generale Aung San -eroe dell’indipendenza e primo leader del nuovo Stato, assassinato nel 1947- ventidue anni fa decise di raccogliere l’eredità del padre. Con l’Nld sostenne il movimento studentesco e domocratico poi represso con la violenza dalla giunta militare. E nel 1990 portò il suo partito all vittoria nelle prime elezioni convocate dai generali da quando presero il potere negli anni Sessanta. Ma il regime impedì con la forza l’insediamento del nuovo Parlamento e costrinse la Lady ai domiciliari, dove ha trascorso 15 degli ultimi 21 anni.

Il clima politico in cui si troverà immersa è però diverso da quello trovato dopo il suo ultimo rilascio nel 2002, cui seguì un nuovo arresto qualche mese dopo. Domenica si sono svolte nel Paese le prime elezioni in vent’anni. Una tornata cui Aung San Suu Kyi non ha potuto partecipare perché condananta a ulteriori 18 mesi di domiciliari per aver dato ospitalità a un cittadino americano quando mancavano soltanto tre settimane alla fine della precedente condanna.

In realtà fu l’uomo a intrufolarsi in casa sua. Ma il gesto fu colto al volo dalla giunta per eliminare il maggiore ostacolo al proprio successo nel voto. Boicottate dall’Nld,  che per questò è stata dichiarata illegale, le elezioni sono state vinte, come previsto, dall’avatar politico del regime l’Union Solidarity and Development Party (USDP). “Ora tutti si aspettano che Aung tenga una linea dura e contesti la legalità della nuova Costituzione e del nuovo governo”, ha scritto Marie Lall, specialitsta sul Sudest Asiatico alla Chatham House, “Adesso l’Nld, disciolto come partito politico, non è più l’unica voce dell’opposizione. Cooperare con le altre forze e sviluppare insieme una strategia contro il regime sarebbe la scelta migliore”.

La Signora, ha sottolineato Lal, è però refrattaria ai compromessi  e corre così il rischio di marginalizzare l’Nld. La sfida più grande per la società birmana è adesso unire le opposizioni e la stessa Lega, all’interno della quale un gruppo di dirigenti si era espressa contro il boicotaggio del voto e aveva fondato un nuovo movimento. Come ha spiegato Win Tin uno dei più stretti collaboratori della Nobel, intervistato dal magazione degli esuli Irrawaddy, i nodi da sciogliere saranno almeno tre: risultato e regolarità del voto, rapporto con le minoranze etniche, messa al bando dell’Nld. Una situazione nella quale, ha spiegato l’anziano leader, i due principali attori saranno ancora “Suu Kyi e Than Shwe”. A Rangoon intanto continua la festa e, ha raccontato Jack Davies, è caduta anche la retticenza a discutere di politica per timore di essere ascoltati da spie e informatori del regime. Tutti ieri parlavano di un solo argomento: la liberazione di Aung San Suu Kyi.

————- Prima della liberazione —————–

Centinaia di sostenitori di Aung San Suu Kyi l’hanno attesa tutto il giorno nella sede del suo partito, quella Lega nazionale per la democrazia (Nld) sciolta dal regime dei generali per aver boicottato le elezioni di domenica scorsa, le prime concesse dai militari in vent’anni.

Ieri, di prima mattina, era trapelata la notizia che il capo supremo della giunta militare, il generale Than Shwe, avesse firmato l’ordine di scarcerazione per la Signora, agli arresti domiciliari da 18 mesi. Ufficialmente la condanna scade oggi, esattamente una settimana dopo il voto.

Indiscrezioni avevano fatto sperare che la premio Nobel per la Pace potesse lasciare la sua casa-prigione già ieri. Una notizia che sembrava trovare conferma nel movimento di agenti e nel rafforzamento delle misure di sicurezza intorno alla sua casa, sulle sponde del lago Inya, nel cuore di Rangoon. A tarda sera i sostenitori erano ancora fiduciosi. “A febbraio il suo vice U Tin Oo fu rilasciato alle otto e mezza di sera”, hanno detto al giornale d’opposizione Irrawaddy, “Aspetteremo fino al rilascio”. È toccato ai dirigenti dell’Nld rimandarli a casa con l’invito a ritornare oggi.

Mercoledì Aung San Suu Kyi aveva rifiutato l’imposizione di condizioni per il suo rilascio. “Non accetterà mai una libertà limitata”, ha sottolineato il suo legale. Il riferimento è alle restrizioni di movimento che i militari vorrebbero imporre alla premio Nobel per evitare un suo pieno rientro nella politica birmana e un contatto con la popolazione. E per bloccare la sua promessa di collaborare, una volta libera, alle inchieste sul regolare svolgimento delle elezioni.

Come ha spiegato l’avvocato Nyan Win, la giunta vorrebbe vietarle di partecipare a incontri pubblici e di visitare le aree delle minoranze etniche. Non a caso le prime ad essersi rivoltate subito dopo la chiusura delle urne con la sollevazione dei ribelli Karen e la battaglia di Myawaddy, alla frontiera con la Thailandia, che ha costretto oltre 20mila profughi a riparare oltre il confine. “Il rilascio non è un atto di distensione e apertura dei militari”, ha detto al Riformista Cecilia Brighi, responsabile per l’Asia della Cisl e autrice di Il Pavone e i generali, “La liberazione è un atto dovuto. Domani la condanna giungerà alla sua scadenza naturale. Ma già l’arresto fu arbitrario e in aperta violazione del diritto internazionale”. La sessantacinquenne Lady ha passato 15 degli ultimi 21 anni prigioniera in casa, senza essere mai stata giudicata colpevole di alcun reato. Almeno fino all’agosto dell’anno scorso, quando fu condannata a 18 mesi per aver violato i domiciliari e aver incontrato un cittadino americano. In realtà fu un veterano del Vietnam, John William Yeattaw, a intrufolarsi in casa della leader birmana quando mancavano soltanto due settimane allo scadere degli arresti.

Un episodio colto al volo dalla giunta militare per arrestare nuovamente la premio Nobel ed escluderla dalla tornata elettorale, assieme agli oltre 2.100 prigionieri politici. “Le elezioni sono state una farsa precostituita per permettere ai militari di vestire gli abiti civili e trovare legittimazione”, ha continuato Brighi, “In questo modo Paesi amici del regime, come la Cina, la Russia, la Corea del Nord, potranno dire che il voto è stato un passo avanti”.

Questo, ha continuato, nonostante la tornata sia stata condizionata da brogli e pressioni, con votazioni anticipate, scelte pilotate e candidati dell’opposizione in vantaggio per la conquista del seggio poi retrocessi a favore di esponenti della giunta. Il rischio è che ora la liberazione possa mettere in secondo piano il risultato elettorale che ha visto l’Union Solidarity and Development Party (USDP), emanazione politica della giunta, conquistare 190 seggi su 219.

“Come sindacato internazionale continueremo a premere sulla comunità internazionale affinché non riconosca il risultato de voto”, ha sottolineato la Brighi, “Chiediamo inoltre una commissione d’indagine per crimini di guerra e vogliamo denunciare il ricorso al lavoro forzato, il reclutamento di bambini nell’esercito, la violenza contro i dissidenti”. Crimini per i quali non sono esenti le aziende occidentali che continuano a fare affari con il regime. Sebbene sia gli Stati Uniti sia l’Unione europea abbiano imposto sanzioni contro il regime, la loro efficacia è spesso limitata.

Manca un sistema di monitoraggio e controllo”, ha continuato Brighi, “e non sono previsti provvedimenti contro le aziende che infrangono le sanzioni”. Intanto i sostenitori si preparano alla liberazione perché, ha detto uno di loro:“Siamo furiosi e confusi per il voto e aspettiamo la sua leadership”. Ma dopo anni di prigionia, di cui sette consecutivi, i critici si chiedono se la Signora possa ancora svolgere un ruolo nella Birmania di oggi.

“In molti ritengono che la sua immagine quasi da santa e il suo essere l’unica birmana di cui gli Occidentali abbiano mai sentito parlare possano aver giocato a favore della giunta”, ha scritto Thomas Bell sul quotidiano britannico Daily Telegraph. Gli anni passati agli arresti, tuttavia,sono per giornalista la prova di quanto i generali temano la Nobel. Addirittura, si legge sul giornale degli esuli in India Mizzima, il suo ruolo sarebbe centrale come non mai:”Nessun altro ha una tale capacità di ispirare, mobilitare e unire i birmani".

[Pubblicato su Il Riformista, il 13 novembre 2010] [Immagine da http://www.lcdinternational.org]