Il 9 settembre 2009 la Cina si è svegliata come in un giorno qualunque. Anzi: come uno dei tanti giorni che precedono le fantasmagoriche celebrazioni del sessantesimo anniversario della Repubblica Popolare, in programma il primo ottobre. Eppure il 9 settembre del 1976, è la data della morte di qualcuno che fu qualcosa di più di un semplice padre della Repubblica. Il Governo lo ha bellamente ignorato, a dimostrazione di un processo irreversibile di cambiamento, non solo economico e sociale, ma anche in relazione ai proprio miti. Il 9 settembre era l’anniversario della morte di Mao Zedong: completamente ignorato, cancellato, nascosto. Un evento, quello del 1976, fermo nella memoria di ogni cinese: ognuno ricorda dove era, nel momento in cui la cappa di mestizia era scesa sul paese, alla notizia della morte di Mao. Grandi concentramenti di gente, veglie, pianti. «Io ridevo», mi ha confessato una insegnante di cinese, allora bambina e incapace di capire cosa fosse successo.
E c’è da chiedersi se, come nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi dell’agosto 2008, anche il primo ottobre il governo centrale di Pechino si dimenticherà, o fingerà di dimenticare, l’esistenza di Mao Zedong. E dire che fu proprio Mao, il primo ottobre del 1949, a salire su una tribuna in piazza Tian’anmen. «Di fronte a una sparuta folla di microfoni, con una manciata di aerei dell’aviazione cinese che volava in circolo sulle loro teste, Mao proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese» (Jonathan Spence, Mao Zedong, Fazi Editore).
Altri tempi, una Cina irriconoscibile, che ha messo Mao nell’armadio, giudicandolo positivamente solo ed esclusivamente per avere vinto la guerra contro i giapponesi, oppure sopra le borse, nei portacenere. Un’icona triste, di un tempo che non c’è più. In mezzo ci sono le aperture di Deng, il trauma degli studenti di Tian’anmen, la clamorosa rinascita economica della Cina e gli attuali problemi di ordine sociale. Ma la Cina oggi è una potenza e come tale vuole celebrare se stessa. Nonostante alcuni ritengano l’odierna Repubblica Popolare – un mischione di socialismo autoritario e capitalismo sfrenato, un modello unico e misterioso nei suoi funzionamenti basilari – ancora profondamente maoista. E’ il caso del professore universitario canadese Timothy Cheek, che nel suo Vivere le Riforme (Edit Edizioni), ritiene la società cinese ancora profondamente maoista, per la grande importanza che ancora oggi riveste il Partito, come scoglio di resistenza al luan, la confusione, nemica giurata dell’ordine cinese. Fu proprio Deng, a suo parere, a maoizzare ulteriormente la Cina attraverso il detto, ci pensa il partito, per segnare un disimpegno progressivo dalla politica del popolo, proprio come avrebbe voluto Mao, con il partito nel celebre ruolo di servitore dei cinesi.
E il Partito, celebrando la Repubblica, celebra soprattutto se stesso. Sessant’anni poi, per i cinesi, sono più importanti di altri anniversari, perché costituiscono il ciclo vitale completo, nella loro cultura. Ecco la ragione dei grandi preparativi e della consueta paranoia creata nel paese, a Pechino, più di ogni altro posto. Una caserma – o un carcere – a cielo aperto.
On line gli studenti universitari di Pechino hanno dato sfogo alle proprie recriminazioni, è c’è da giurare che tanta altra gente normale abbia le proprie idee in proposito: le celebrazioni del sessantesimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese stanno toccando, al solito, livelli di controllo e di divieti elevati, peggio che in una località balneare e turistica italiana, tanto per farsi un’idea. E chi paga il clima da Grande Fratello, al solito, è la gente comune. Prendiamo gli studenti: devono prestarsi in centinaia di migliaia alle parate e alle prove, che tolgono loro tempo per studiare o, perché no, godersi le meritate vacanze. Invece lo stato cinese vuole una partecipazione totale della propria popolazione nelle celebrazioni. Secondo l’Apple Daily, quotidiano di Hong Kong: «alcuni studenti sono molto contrariati dalle autorità centrali cinesi. Sono iniziati boicottaggi on line alla parata e qualcuno ha anche bruciato pubblicamente le uniformi che dovrebbero indossare.
Pare che le autorità abbiano preso molto sul serio le proteste degli studenti, per questi alcuni delegati sono stati mandati nelle scuole per scovare e punire gli studenti responsabili di questi gesti». On line gli studenti si sono sfogati: «non riesco a capire, ha scritto qualcuno, come sia possibile che queste celebrazioni non possano essere di profilo più basso. Verranno spesi tanti soldi e causati parecchi problemi ai cittadini normali. Sarebbero stati sufficienti i fuochi d’artificio».
Non solo: durante le celebrazioni alcuni falchi (pare quattordici per la precisione), addestrati dalla polizia cinese, eviteranno a uccelli che potrebbero disturbare il cielo di Pechino di volare e mettere così a rischio il volteggio dei tanti piloti sugli aerei celebrativi della repubblica. Niente uccelli, niente a aquiloni e palloncini, aerei veri e telecomandati. Ogni cittadino cinese, secondo le direttive per la sicurezza, dovrà segnalare qualsiasi comportamento sospetto, compreso quello dei venditori ambulanti che dovessero provare a vendere aquiloni. Oltre al consueto rischio terrorismo. Già ottocento i volontari al lavoro, milioni le persone che hanno fatto richiesta di svolgere volontariato per assicurare la perfetta sicurezza nella città. Le forze militari della Cina si dimostreranno in tutto il loro massimo splendore. Verranno utilizzati missili, speciali, ha specificato un membro dell’esercito e carri armati, nonché migliaia di uomini. Non mancano infine i regali dei governanti al proprio popolo: da qualche giorno nelle sale cinematografiche cinesi ci sono due kolossal che raccontano la storia, le vicende, il mito della Repubblica. Sono Tian’anmen e The Founding of a Republic. Il primo film è diretto da Ye Daying, il secondo da Han Sanping e Huang Jianxin. In Founding of a Republic, un vero e proprio kolossal, vengono narrate le vicende legate alla guerra civile e agli eventi del 1949 da cui scaturì la Repubblica Popolare Cinese. 177 le star cinesi che interverranno. Tra gli altri, Jackie Chan, Jet Li, Zhang Ziyi.
La Cina che si appresta a festeggiare però, non può certo distrarsi dai gravosi compiti che ne segnano l’agenda politica: crisi, e la necessità di garantire uno sviluppo, anche se non più a due cifre, l’ambiente – e le risorse energetiche – e una situazione sociale che non sembra essersi placata. Nel Xinjiang, dopo le rivolte di luglio, gli arresti, la psicosi degli attacchi con le siringhe e il libro bianco, pubblicato in questi giorni dal governo, la situazione non appare per niente in via di pacificazione, anzi. Nel resto del paese un’ondata di proteste e di violenza sembra scuotere la consueta routine della Repubblica: tante le manifestazioni per disguidi in alcune fabbriche che hanno provocato avvelenamenti (l’ultimo da piombo, di cui ha dato notizia anche il Giornale del Popolo, a Jiaoyang, nella provincia meridionale del Fujian). Più in generale si registra un clima – specie nell’ultimo anno – di insofferenza nei confronti dell’abuso di potere, specie dei funzionari locali, che obbliga il partito a cambiare alcune strategie interne e dotarsi di manovre anti corruzione per riguadagnare la fiducia di un popolo che, stretto tra crisi economica e arroganza del potere, pare avere perso fiducia nei suoi figli del cielo. Il primo ottobre c’è da giurarci che vincerà le retorica, dal giorno dopo la Cina ricomincerà a bollire, come dentro una gigantesca pentola a pressione. C’è da chiedersi se, quando e soprattutto chi, toglierà il tappo e ne svelerà le traiettorie più recondite.
[Pubblicato su Liberazione, il 27 ottobre 2009]