Il chip del Dragone

In by Simone

Una Storia di Internet
Il web cinese e il suo impatto sulla società del Celeste Impero, almeno nelle grandi città, è decisamente complesso. A settembre dello scorso anno Sun Chunlong, giornalista dell’Oriental Outlook Weekly Magazine, aveva scritto sul suo blog una lettera aperta a Wang Jun, governatore dello Shanxi, a proposito della morte di 11 persone impegnate a lavorare in una miniera illegale. Secondo il giornalista i morti sarebbero stati almeno 41 e le cause sarebbero state umane (ovvero delle autorità) e non accidentali come annunciato ufficialmente. Due giorni dopo dall’ufficio del governatore parte una chiamata per Sun Chunlong: il caso è riaperto. Ancora: un mese fa sono comparse on line le fotografie di un dirigente del partito comunista che indossava un orologio molto costoso e che fumava sigarette da 150 yuan (15 euro). Tam tam mediatico, inchiesta interna e radiazione del funzionario, colpevole di usare soldi pubblici per i propri gusti fashion.

Nascono neologismi anche, come il fenomeno dello human flesh search engines, ovvero una sorta di investigazione in rete a scovare informazioni personali di gente contro cui accanirsi. Una modalità che proprio a dicembre del 2008, ha visto un tribunale occuparsi del caso. Wang Fei era un agente pubblicitario. Sua moglie si suicida e alcuni recuperano stralci dal suo blog. Immediatamente Wang Fei viene additato come la causa del suicidio e per lui comincia un’odissea persecutoria, che lo ha pure portato al licenziamento. Una bile collettiva, per il gusto di accanirsi. A dicembre il tribunale di Pechino ha stabilito che lo human flesh search engine, in quanto forma persecutoria, è reato, condannando i principali autori della campagna diffamatoria.

Sono esempi dell’internet alla cinese che, tra divieti e social networks, è diventato ormai parte integrante della società: consultato dai politici, citato dai telegiornali e dai media tradizionali, rappresenta le contraddizioni apparenti di un intero paese, a cavallo tra tradizione e modernità: non a caso le Università per smanettoni e designer sono quelli che vanno per la maggiore. Internet, per i cinesi, non è più solo confronto con il mondo, ma con se stessi e con la propria capacità di innovazione, dopo tanti anni di copia e incolla. E il web cinese ormai è il più grande al mondo: le persone che usano Internet sono oggi 298 milioni (più o meno l’intera popolazione degli USA). Lo studio effettuato dal Centro per l’ Informazione su Internet in Cina indica che l’anno scorso è cresciuto anche il numero delle persone che si collegano ad internet con i telefoni cellulari, (117 milioni), con un aumento del 133 per cento rispetto all’anno precedente. Alla fine del 2008, le persone che tenevano un blog su Internet erano 162 milioni.
Numeri da capogiro, per un processo che ha consumato le tappe a velocità straordinarie e che è già storia.

La prima mail non si scorda mai
Il pioniere ha un nome, Xu Rongsheng. Fu lui il primo cinese a navigare in Internet: 1994, anno di nascita del world wide web della Terra di Mezzo. Xu è l’ex vicedirettore del Beijing’s Institute of High-Energy Physics (IHEP), negli anni 80 colleziona esperienze di collaborazione con varie università europee e statunitensi. Nel 1990 anche in Cina si cominciava a parlare di un protocollo particolare, che avrebbe aiutato la scienza e la collaborazione tra i paesi. Era il protocollo TCP-IP e quando a Xu Rongsheng venne chiesto di creare un network con gli Usa, gli fu permesso di sperimentare la novità. In Cina sbarcava Internet e come in altri paesi l’esperienza fu eccitante. Spirito di ricerca e stupore, come in ogni corsa verso il futuro. Allora il governo, assicurano i ricercatori cinesi, favorì lo sviluppo della Rete, in un percorso che ufficialmente partì nel 1986, con la nascita della China Academic Network (CANET) lanciata dal Beijing Institute of Computing Applications (ICA) in collaborazione con l’università di Karlsruhe in Germania. Collaborazione scientifica, condivisione dei progressi e sensazione di avere tra le mani qualcosa di rivoluzionario. Per questo anche in Cina si investì, in pieno periodo di riforme, di cui quest’anno ricorre il trentennale.

Nel 1987 il primo risultato: lo IHEP effettua la prima connessione internazionale con il Cern di Ginevra e in Cina ci si divide sul subject della prima mail mandata in orbita. C’è chi sostiene fosse «dalla grande muraglia possiamo raggiungere ogni angolo del mondo» e chi invece ritiene fosse «attraversare la Muraglia per raggiungere il mondo». Poco importa l’epica in questo caso: da lì a poco la Cina avrebbe cominciato a diventare uno dei mercati più rilevanti dell’Internet mondiale. Dovevano ancora arrivare le censure, i dubbi e le truffe on line: era l’epoca dei pionieri. Nel 1994 viene installato il primo router in terra cinese e viene lanciata on line la pagina dello IHEP: informazioni sull’istituto e basilari nozioni turistiche. La Terra di Mezzo aveva superato il test più arduo del nuovo millennio: entrare nell’ambito della società informazionale contemporanea.

Censura o controllo sociale? Scudi d’oro e Grandi Firewall

Ad una conferenza di Shanghai nel 2001 Jiang Mihanheng, vice presidente dell’Accademia di Scienze di Cina, nonché figlio di Jiang Zemin, aveva detto: «la Cina deve costruire un proprio network nazionale, indipendente dall’Internet mondiale».
Jjīndùn gōngchéng significa letteralmente progetto ingegneristico per lo scudo d’oro. Meglio conosciuto come il Grande Firewall Cinese (termine ormai di moda, ma di cui rivendicano la paternità hackers e giornalisti) o il Kung Fu Net, jīndùn gōngchéng è il nome del progetto partito nel 1998 e diventato reale nel 2003, avente come scopo quello che apparentemente sembra un ossimoro: controllare l’internet e realizzare l’auspicio di Jiang Mihangeng, creando una Intranet nazionale, di cui disporre e controllare ogni accesso al suo esterno. Una macchina di censura, trasformata recentemente in un vero e proprio meccanismo di controllo sociale. Voluto dal Ministero della Sicurezza pubblica cinese, il progetto costituisce una delle note salienti del web asiatico. Il Grande Firewall però, non deve la sua esistenza solo all’ottusità del potere governativo e alla tecnologia dei tanti ingegneri cinesi. Alla sua nascita e irrobustimento continuo ci si dedicano tante aziende internazionali (anche Google, Yahoo, Microsoft, naturalmente), perché il Grande Firewall nasconde business prediletti e perché la Cina è disposta a spendere parecchi soldi.

Ancora oggi gli utenti del Celeste Impero si collegano ad internet attraverso tre ingressi principali: al nord la fibra ottica che collega Pechino a Qingdao (dal Giappone), quella di Shanghai nel sudest (anch’essa dal Giappone) e quella di Guangzhou (da Hong Kong). Abbastanza agevole, di conseguenza, è il controllo. Grazie alla Cisco il governo cinese ha inoltre disseminato la propria rete di router. In questo modo tremila persone al soldo del Governo possono controllare le navigazioni degli utenti, oscurando parole o siti considerati proibiti dal partito: si va dal porno al Falun Gong, il gruppo religioso considerato illegale in Cina. Un apparato tecnologico e umano che costa molti soldi, ma che sta permettendo il controllo dell’Internet da parte delle autorità cinesi. Via via cadono anche, sporadicamente, alcuni siti che permettono un collegamento ad un proxy esterno all’intranet cinese con il quale raggiungere siti proibiti. Smanettando si riesce a fare qualsiasi cosa, assicurano i geek della Terra di Mezzo, sospesi tra voglia di esplorare e rispetto delle decisioni dei propri governanti. E d’altro canto, i cinesi, hanno una consapevolezza decisamente alta riguardo l’attività censoria del proprio governo.

Il Web 2.0 ai tempi della Cina: dall’on line alla vita vera.

Isaac Mao passa agli annali come il primo cinese ad avere cominciato ad alimentare un proprio blog nel 2001. Aveva iniziato a scrivere delle proprie esperienze e ben presto il suo sito era stato abbattuto dai severi censori cinesi. 80 giorni senza un luogo in cui postare, il tempo di comprare un dominio negli Usa e iniziare una battaglia contro la censura del proprio paese, fino a quel momento ignorata. Insieme ad altri amici ha messo in piedi la versione cinese di Global Voices, un luogo di giornalismo investigativo prodotto dai bloggers di tutto il mondo.

Dal 2001 ad oggi è cambiato tutto: quasi ogni cinese ha un luogo dove porre i propri pensieri e la propria visione del mondo. Ha preso corpo una opinione pubblica in rete che, tra difesa dagli attacchi dell’esterno e critica al proprio paese, rappresenta il magma complesso della socialità cinese. Da sempre i cinesi usano gli strumenti di messaggistica on line, da QQ alle BBS, da Skype alle chat. Gli internet cafè si affollano, e qualcuno con soli 10 yuan, circa un euro, può passarci l’intera notte a chattare, scrivere, giocare. E dormire, naturalmente.
Numeri e impatti storici e nuove possibilità. L’anno scorso, ai tempi della rivolta di Lhasa molti cinesi misero su il sito anti-Cnn per contrastare, a loro dire, l’informazione manipolata dagli occidentali su quanto avveniva in Tibet. Molti mass incidents (come il Governo chiama le proteste popolari che spesso sfociano in vere e proprie rivolte) partono dai cellulari o dal web. A Shanghai, quando i cittadini scesero in piazza contro il nuovo tratto del Maglev (il treno super veloce che collega l’aeroporto alla città), l’organizzazione era partita on line. E il governo di Shanghai accettò le richieste dei no-tav cinesi, bloccando il progetto, semplicemente.

Punti di non ritorno anche, nonostante i nuovi anatemi di censura. A giugno, secondo molti cinesi, ci sarebbe stata una vera e propria svolta, che indicherebbe una nuova attenzione e forza dei mezzi tecnologici: a Weng’an una ragazza viene uccisa, le autorità chiudono frettolosamente il caso sostenendo la tesi del suicidio. Testimoni però raccontano sul web la loro versione: a uccidere la ragazza sarebbe stato il figlio di un noto politico locale. Dalla rete si passa alla realtà: migliaia di persone scendono in piazza, si dirigono verso la sede locale della polizia e gli danno fuoco. Le immagini cominciano a girare on line e, per la prima volta, i media ufficiali non fanno finta di niente. E’ un segnale, a parere di molti navigatori, che qualcosa sta cambiando: quello che passa dal web, ormai diventa cronaca ufficiale, non più sconfinata in un mondo virtuale a repentaglio della censura e dell’oblio. Diventa realtà, auto narrazione e infine mito.

(*pubblicato da Il Manifesto il 6 febbraio 2009)