I misteriosi rapimenti che scuotono le relazioni tra Tokyo e Pyongyang

In Asia Orientale, Relazioni Internazionali by Stefano Lippiello

Fermi su di una spiaggia del freddo Mar del Giappone la Corea può sentirsi talvolta molto vicina. Le onde di questo mare, tanto tumultuoso da aver secondo la tradizione respinto le flotte degli invasori mongoli, hanno portato a riva boe, casse e altri resti che giacciono fermi sulla sabbia abbandonati lì dal riflusso della bassa marea. A colpo d’occhio su di essi si riconosce l’alfabeto coreano, così diverso dagli ideogrammi giapponesi.

Tra un autunno di fine anni ’70 e un’estate di inizio anni ’80 per qualche sventurato giapponese questa distanza è diventata fin troppo stretta, fino a farsi soffocante sotto il cappuccio dei sequestratori – per quelli tra loro che ora sappiamo essere stati incappucciati. Il numero esatto della vittime è ancora ignoto.

Il governo giapponese, sulla base delle indagini della polizia, riconosce diciassette casi certi. Le organizzazioni dei parenti delle vittime si spingono a ipotizzare qualche centinaio di rapimenti. Il mandante, lo stato della Corea del Nord, è uscito allo scoperto in una spettacolare ammissione nel corso di un incontro ufficiale con i rappresentanti delle autorità giapponesi il 17 settembre 2002 a Pyongyang e ne ha riconosciuti tredici per bocca dell’allora leader Kim Jong-Il, ma non ha saputo, o voluto, fornire informazioni decisive sul destino di tutti i sequestrati.

Il dramma per molte delle vittime è cominciato proprio su quelle spiagge della costa nord, nelle prefetture di Fukui, Ishikawa, Niigata, che affacciano sul Mar del Giappone. Le vittime, dopo essere state immobilizzate, venivano trasportate con un gommone dalla riva fino a una barca più grande che aspettava al largo. Qui avveniva il trasbordo e la lunga traversata proseguiva fino alla Corea del Nord; in almeno due casi è stato indicato il porto di Chongjin come meta.

Il caso divenuto più celebre – e drammatizzato in vari formati tra cui un anime – è quello della ragazza di tredici anni, Megumi Yokota, sparita mentre rincasava a poca distanza da una spiaggia di Niigata, la cui costa fronteggia quella della Corea del Nord. Proprio il suo caso tra il 1995 e il 1997 fu il primo a essere ricondotto con certezza alla rete di operazioni nordcoreane in Giappone. I primi dettagli sul suo sequestro emersero quasi venti anni dopo i fatti a seguito di una serie di contatti della stampa giapponese con disertori nordcoreani avvenuti in Corea del Sud. Fino ad allora la stampa se ne era occupata solo in breve nelle cronache locali e la polizia giapponese era stata restia a divulgare notizie al pubblico; mentre neppure è chiaro fino a che punto avesse già collegato tutti i casi tra loro.

La Corea del Nord non ha mai fornito spiegazioni sui motivi dei rapimenti. Una ricostruzione parziale  è possibile sulla base degli interrogatori degli agenti nordcoreani arrestati e delle testimonianze dei pochi ritornati. Dopo aver ricevuto un’istruzione coreana, le vittime venivano impiegate per istruire le future spie nordcoreane all’idioma, agli usi e costumi giapponesi; inoltre, svolgevano attività di traduzioni di documenti e articoli per il governo. Altre volte gli agenti nordcoreani assumevano l’identità del sequestrato e ne usavano il passaporto per muoversi senza problemi all’estero e per compiere attacchi terroristici, come avvenne per l’attentato al volo 858 della Korean Air (compagnia di bandiera della Corea del Sud) del 29 novembre 1987, che uccise tutte le 115 persone a bordo nei cieli sopra il Mare delle Andamane.

Venticinque anni sono passati prima che cinque dei rapiti e i loro figli, nel frattempo già grandi, potessero tornare nelle loro case in Giappone. Cosa sia successo a Megumi e agli altri resta un mistero e di loro non c’è ancora traccia.

La questione ha influenzato notevolmente i rapporti diplomatici tra i due paesi, tanto da essere ancora oggi oggetto delle richieste giapponesi a margine delle recenti aperture americane alla Corea del Nord. È stata, inoltre, negli anni ampiamente cavalcata dalla stampa nazionalista. L’ammissione nordcoreana però, data la centralità della questione per la politica estera nipponica, è stata all’origine della normalizzazione delle relazioni diplomatiche avvenuta con il governo Koizumi nel 2002 dopo la restituzione di alcuni dei sequestrati.

Per i nordcoreani gli altri rapiti sarebbero tutti morti. I loro certificati di morte sono però stati falsificati e le circostanze addotte dal regime appaiono agli investigatori sospette: in diversi casi, in cui furono rapite assieme delle coppie giapponesi, moglie e marito sarebbero poi morti quasi sempre insieme o a breve distanza l’uno dall’altro. Alcuni resti sono stati consegnati al governo giapponese, ma in nessun caso la prova del DNA ha dato riscontri positivi. Nel caso della ragazza di Niigata, Megumi, le circostanze opache nelle quali il test è stato condotto hanno provocato anche un acceso dibattito tra il mondo scientifico e il governo giapponese sull’indipendenza della scienza dalla politica.

Ora i familiari aspettano altri indizi sul destino delle vittime dal reclusivo regime nordcoreano, sia su quelle che sono state riconosciute, sia su quei casi che la Corea del Nord non ha riconosciuto. Ogni pomeriggio dalle due alle sette un richiamo agli scomparsi al di là del mare giunge dalla madrepatria, la trasmissione “Furosato no kaze” – vento delle origini – corre sulle onde radio verso il continente e la Corea del Nord.

[Pubblicato su il manifesto]