I limiti di India’s Daughter (e i nostri)

In by Simone

Il documentario che Leslee Udwin ha realizzato per il progetto Storyville di Bbc si concentra, per 60 minuti, sul racconto dello stupro e omicidio della studentessa Jyoti Singh, passato alla Storia come il Delhi Gangrape. Qui, una nostra recensione.
Chi si aspetta un documento omnicomprensivo di tutte le sfaccettature sociali e politiche che gravitano attorno alla disparità di genere in India, può evitarne la visione (può proprio evitare la visione di documentari, in generali). Per chi invece vuole un punto di partenza sul quale riflettere e ricercare, allora la visione di India’s Daughter è una visione dolorosa ma necessaria.

Le polemiche che hanno anticipato la pubblicazione del documentario sono state di natura spesso speculare, tra chi apprezzava la scelta del governo di Delhi di censurarne la trasmissione in India per salvaguardare il decoro pubblico (non raccontiamo ancora cose di cui ci vergognamo) e chi, piuttosto che vedere un prodotto privo dell’approfondimento necessario, preferiva che non fosse mandato in onda proprio nulla.



Con India’s Daughter
, invece, Udwin presenta un lavoro lodevole, alcuni direbbero "anglosassone" nel senso di "distaccato", nell’illusione di un giornalismo che può raccontare solo i fatti senza "sporcarsi" con le opinioni, quando invece anche e soprattutto la scelta dei fatti da raccontare esprime un’opinione. E qui possono sorgere i primi problemi.

Udwin racconta esclusivamente la concatenazione dei fatti di cronaca a partire dal 16 dicembre 2012, quando Jyoti Singh viene violentata da sei uomini su un autobus mentre tornava dal cinema. La documentarista si concentra quindi sul particolare, sull’episodio, andando ad indagare le vite della famiglia della vittima, delle famiglie degli stupratori e, in particolare, di Mukesh Singh, uno dei sei, al quale Udwin affida il compito della narrazione dell’orrore.

Singh viene intervistato all’interno del carcere Tihar di New Delhi – e uno pensa a quali e quanti santi abbia in paradiso la troupe di Bbc per ottenere i permessi necessari a intervistare un condannato in primo grado alla pena capitale in attesa della sentenza di appello in Corte Suprema – e racconta a favor di telecamera tutta la dinamica dell’assalto, comprendendo  i dettagli terrificanti del caso, presentando all’audience anche il passato degli altri imputati, tutti indiani ai margini della società che vivono di espedienti, microcriminalità, residenti in uno slum. Ne esce un identikit mostruoso, di uomini ai quali la società iniqua indiana ha negato il lusso di un’esistenza se non decorosa almeno lecita; una condizione discriminante contro la quale i sei oppongono una sorta di machismo anticonvenzionale, rivendicando il diritto al divertimento, al sesso, a sbronzarsi e prendersi con la forza nella notte quello che a loro viene negato. In questo modo lo spettatore potrebbe pensare che condizioni socioeconomiche e violenza sessuale siano fattori strettamente collegati, e sbaglierebbe. Lo stupro, anche di gruppo, in India non è una prerogativa delle classi indigenti, è un fenomeno criminale trasversale, come è trasversale la retorica patriarcale nel paese.

I tentativi di autoassoluzione di Mukesh Singh si formano comprendendo tutta la gamma della presunta eccezionalità della cultura indiana: le donne devono stare in casa quando cala il sole, se escono o fanno cose "non da donne" (vestirsi non secondo la tradizione, andare nei bar, sfidare il potere precostituito della tradizione patriarcale) allora si meritano una lezione. Dalle parole di Singh, rafforzate nel documentario dai medesimi contenuti riproposti a più riprese dai due avvocati difensori dei sei violentatori, emerge la volontà "didattica" della punizione corporale contro Jyoti, che infatti non viene solamente violentata (cioè estorcere il "piacere" da una persona non consenziente, di per sé un’azione con intenti punitivi), ma anche brutalizzata con una spranga di ferro. Gli inquirenti riusciranno a inchiodare alle loro responsabilità tre dei sei sospettati grazie alla compatibilità dei loro denti con le ferite da morso ritrovate sul corpo di Jyoti.

Lo spettatore ha di fronte un mostro anzi, come dice il padre di Jyoti, ha di fronte Satan, il diavolo, capace di gesti talmente orribili che nell’immaginario collettivo non possono appartenere a questa Terra. Ma il mostro, l’elemento eccezionale, dice le stesse cose che ha sentito ripetere da politici, poliziotti, leader spirituali; appartiene quindi a una comunità che pur nell’enorme divario socioeconomico è unita nella difesa dei cosiddetti "valori indiani". L’impressione, quindi, è che la società patriarcale indiana, con tutti i suoi dogmi e le sue resistenze al cambiamento, funga da collante sociale, sia in grado di far sentire gli esclusi comunque parte di un tutto.

A questo punto la critica di una parte del movimento femminista indiano può risultare più chiara: se nel documentario si mostra solamente quella parte del tutto, si può dare l’impressione – errata – che l’abbattimento del mostro possa essere la soluzione del problema stupri in India, mentre Il Problema è in realtà alla radice e coinvolge una grandissima parte della società indiana, assieme ai politici che elegge e alla polizia alla quale si affida.

Si noterà come in tutto il documentario la classe politica e la polizia non siano minimamente investite da nessuna critica o responsabilità dell’accaduto. I politici intervistati rilasciano le solite dichiarazioni all’acqua di rose (il raccontino del bicchiere di latte di Sheila Dikshit, chief minister di New Delhi in forze all’Indian National Congress proprio nel 2012), la polizia di New Delhi viene – giustamente – lodata per l’efficienza dimostrata nelle indagini immediatamente posteriori al 16 dicembre. Parallelamente, le cariche della polizia contro gli studenti in piazza passano indenni come contorno della protesta, come non si va a indagare su chi quelle cariche le ha ordinate e non si fa riemergere dalla memoria l’azione di tutto l’arco parlamentare che, mettendo il cappello sulla protesta spontanea degli studenti, ha dirottato il tema del dibattito nazionale: se gli studenti volevano mettere sul banco degli imputati la società patriarcale in toto, della quale i sei imputati sono solo i fenomeni più appariscenti, la politica ha ripiegato sul "dagli al mostro", introducendo la pena di morte anche per i reati di stupro. Finita lì.

Il limite di India’s Daughter è legato alla professione del giornalismo che, per come lo si intende qui, deve provare a trovare continui compromessi tra la complessità dei fatti che racconta e il carattere non specialistico dell’audience alla quale si rivolge. Udwin questo lavoro lo fa bene, decidendo di limitare l’argomento del documentario al solo episodio del Delhi Gangrape, pur conoscendo la complessità di tutto il tema e lanciando allo spettatore diciamo "più esperto di India" una serie di indizi in questo senso: notate ad esempio quando gli studenti urlano in piazza "giustizia per Soni Sori", poi andate a leggervi la storia di Soni Sori; oppure la scelta dei segmenti di intervista alla famiglia di Ram e Mukesh Singh, con la madre che, dopo essersi lamentata dei suoi due figli che non la potranno assistere in vecchiaia, si chiede "non è per questo che si fanno i figli?", lasciando intravedere il baratro del concetto di famiglia nella società patriarcale, senza però infilarcisi.

Udwin riesce anche a smontare la retorica povero = criminale che permea gran parte del documentario, dando ampio spazio alle riflessioni e ai ragionamenti dei genitori di Jyoti, che pur provenendo dallo stesso humus dei sei violentatori (anche loro sono migranti dal Bihar e vendono il terreno della "casa ancestrale" per permettere alla figlia di studiare), sono portavoce di una mentalità progressista che inizia a essere contagiosa non solo nelle città. Sono l’elemento di speranza di India’s Daughter, verso il quale il pubblico viene indirizzato a compensazione della narrazione dell’orrore e dei momenti strappalacrime che, sempe ricordando che siamo di fronte a un prodotto per il pubblico di massa e non in una versione video di un panel accademico, non possono non esserci.

Il nostro limite, nostro in qualità di spettatori, è la ricerca di soluzioni in un documento che non si pone questo obiettivo: India’s Daughter non ci spiega come si uscirà dalla spirale di violenza e non vuole nemmeno raccontare lo stato dell’arte della lotta contro la società patriarcale in India. Non è un documentario militante, è un documentario e racconta una storia, una parte del tutto.

Quella storia, infinitesimale nella complessità dei cambiamenti sociali indiani, è così come è stata raccontata da Udwin. Non è la storia degli stupri in India, ma la storia di Jyoti Singh ammazzata da sei uomini. Da qui si può partire in diverse direzioni, spaziando sul problema di law and order nel paese, sulle disparità sociali portate da un modello economico brutale, sulla guerra di trincea che l’establishment politico indiano combatte contro il cambiamento (e la censura governativa del documentario in India rappresenta un sintomo di debolezza) che volente o nolente arriverà (sta già arrivando), sulle difficoltà che i movimenti femministi e per i diritti umani incontrano quando provano a lavorare sul campo (ci voleva la Bbc per raccontare questa storia? Sì, nessun giornale o ong indiana ha la forza comunicativa per intervistare tutta quella gente, men che meno per portare le telecamere dentro a un carcere di sicurezza), sulle discriminazioni di genere quotidiane dalle quali nascono episodi criminali come il Delhi Gangrape, sui modelli di machismo veicolati dall’intrattenimento di massa di Bollywood.

Lo farà qualcun’altro, indiano e non, riprendendo le decine di temi indicati e non indagati da India’s Daughter. Ma per il momento, se si vuole provare a capire una parte del tutto, la visione del documentario di Leslee Udwin è un dolore necessario.

[Scritto per East online; foto credit: lokmarg.com]