Huomai, sepolti vivi. Il caso Yu Jie e la risposta cinese

In by Simone

Yu Jie, lo scrittore dissidente cinese scappato in America, continua a far parlare di sé. L’intervista rilasciata al Wall Street Journal ha scatenato i commenti della rete e l’editoriale censorio del Global Times.
Nonostante la fuga negli Stati Uniti, Yu Jie, lo scrittore dissidente cinese, continua a far parlare in Cina. Prima la fuga in sé, poi le dichiarazioni alla stampa americana, in cui ha accusato le forze di polizia cinesi di “tortura”.

Da una di queste interviste era partito anche un nuovo tormentone pro dissidenti on line, attraverso l’espressione “sepolto vivo” (huomai, in cinese) con cui si è superato l’ostacolo della censura legato al nome dello scrittore.

Yu Jie aveva infatti confidato al Wall Street Journal le parole di un agente di sicurezza che lo aveva arrestato, in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per Liu Xiaobo: “Se l’ordine viene dall’alto, possiamo scavare una fossa per seppellirtici vivo in mezz’ora, e nessuno al mondo lo saprebbe”.

Nei giorni scorsi, giorni di festa in Cina per il capodanno, il Global Times, quotidiano su posizioni nazionaliste, ha pubblicato un editoriale nella sua versione cinese in cui affronta il tema Yu Jie e quello più generale legato ai dissidenti. Condannandolo senza appello: “le sue opinioni non sono quelle della maggioranza dei cinesi”, ha scritto l’editorialista.

Alla vigilia della cerimonia di premiazione del Nobel per la pace Liu Xiaobo il 9 dicembre del 2010, Yu Jie, lo scrittore dissidente scappato negli Usa nelle scorse settimane, venne preso dalla polizia cinese. Gli misero in testa un cappuccio nero e lo portarono in un posto sconosciuto.

Lì sarebbe stato preso “a calci, denudato, picchiato e torturato per ore fino a quando sono svenuto. Sono stato schiaffeggiato sulle guance e costretto a schiaffeggiare me stesso. Mi hanno camminato sul petto, mi hanno piegato le dita della mano all’indietro come punizione per “i saggi scritti che attaccano il Partito comunista”. E’ sto queil racconto che Yu Jie ha fatto al Wall Street Journal, una volta atterrato negli Stati Uniti.

Yu era stato punito per la sua collaborazione letteraria con Liu Xiaobo negli ultimi dieci anni, per la pubblicazione ad Hong Kong del libro sul premier cinese Wen Jiabao – in cui accusava il premier di ipocrisia sui valori democratici – e per aver scritto la biografia del premio Nobel Liu.

A seguito di ore di tortura, Yu ha detto che svenne e fu portato in un ospedale locale al di fuori Pechino, dove medici avrebbero detto che le sue condizioni erano troppo gravi per essere trattate lì, trasferendolo in un ospedale della città più attrezzato.

Durante l’intervista, l’espressione “sepolto vivo” parte di una minaccia che Yu avrebbe ricevuto da un agente di sicurezza, è divenuta un tormentone del web cinese, aiutando i netizen locali ad aggirare il blocco imposto sul nome dello scrittore.

Secondo il racconto di Yu, la notte prima della cerimonia di premiazione di Liu Xiaobo, un agente di sicurezza gli avrebbe confidato: “a quanto ci risulta, a noi poliziotti, non ci sono più di 200 intellettuali del paese che si oppongono al Partito Comunista e che siano influenti. Se le autorità centrali pensano che il governo possa entrare in una crisi, li possiamo catturare tutti in una notte e seppellirli vivi”.

L‘unico organo di stampa che ha citato Yu Jie è stato il Global Times, un quotidiano su posizioni nazionalistiche, che infatti ha attaccato il dissidente: “la maggioranza dei cinesi non pensa le cose dette dal signor Yu”, ha scritto il quotidiano.

Per arrivare alla conclusione: “C’è anche un certo numero di altri che si sentono limitati, perché avrebbero sperimentato la libertà del mondo esterno. Essi adottano un atteggiamento ostile verso la Cina di oggi e per questo devono pagare un certo prezzo personale. Essi non negano di essere antagonisti e chiedono di rimanere antagonisti senza restrizioni, chiedendo alla legge cinese di creare una “zona speciale” per loro. Ma la risposta che ricevono è un no”.