Come accade sempre più spesso in Asia, quando c’è di mezzo la Cina, le proteste rischiano di rappresentare sentimenti radicati nel tempo: quelle in scena da giorni a Hong Kong sono contro l’approvazione del provvedimento che consentirebbe per la prima volta l’estradizione di sospetti di reati verso la Cina continentale, ma sono innanzitutto proteste anti-cinesi.
Le persone in piazza hanno dimostrato – infatti – l’insofferenza di Hong Kong verso una presenza sempre più evidente di Pechino negli affari interni dell’ex colonia britannica. Non c’entra solo la Cina, perché ovviamente di fronte alla proteste anche gli Usa hanno detto la loro, da Nancy Pelosi, contraria all’estradizione (che poi dipenderebbe dall’esecutivo, accusato di essere filocinese), a Trump che, invece, ha espresso la volontà che tutto si possa risolvere di comune accordo con la Cina.
Ipotesi piuttosto complicata, mentre Admiralty, Central, luoghi comuni a chiunque sia mai passato da Hong Kong, si riempivano di manifestanti e ben presto diventavano luoghi di scontri con la polizia, che nella serata di ieri ha etichettato come «rivolta» la protesta, lasciando intendere un seguito repressivo non da poco, quanto a potenziali condanne per gli arrestati (sia quelli già in custodia, sia quelli che arriveranno nei prossimi giorni).
Chi ritiene sia necessario il provvedimento (il governo di Hong Kong, guidato da Carrie Lam, accusata di «vendere Hong Kong alla Cina» e naturalmente Pechino) portano a propria giustificazione il caso del ragazzo autore di un omicidio a Taiwan e poi rifugiatosi a Hong Kong. In questo caso la legge permetterebbe l’estradizione (il provvedimento prevede la possibilità di estradare sia in Cina, sia a Taiwan sia a Macau).
Chi è contrario ritiene molto semplicemente che la legge permetterà alla Cina di ottenere eventuali dissidenti o persone accusate di reati di opinione contro Pechino. Ma naturalmente non c’è solo questo: in ballo infatti c’è un riavvicinamento politico sempre più netto, dopo che già economicamente e finanziariamente Hong Kong è ultra collegata alla Cina continentale. Le manifestazioni davvero partecipate – come mai si era visto nell’ex colonia, neanche nel 2014 ai tempi della cosiddetta «Umbrella Revolution» che si caratterizzò per la richiesta di suffragio universale (a Hong Kong il chief executive è nominato indirettamente) – dimostrano come per gran parte della società di Hong Kong la propria peculiarità, ovvero la presenza di elementi democratici al proprio interno, sia intoccabile.
Le proteste, soprattutto quelle di ieri, sono tracimate in scontri violenti, arresti, feriti in ospedale. Carrie Lam piangente ha assicurato di non aver venduto la città alla Cina, Pechino ha ribadito che la legge permetterà alla città di liberarsi di criminali, affermazioni che si sono immediatamente trasformate nella giustificazione di legge e scontri da parte dei filo cinesi.
Il problema vero per chi protesta è che di fronte non ha solo il governo e la polizia cittadina, bensì la seconda potenza mondiale. Le possibilità di riuscire a bloccare la legge sono sostanzialmente nulle, almeno, sulla carta e data la volontà dell’esecutivo di andare avanti.
La violenza di alcuni scontri è l’ultima risorsa per i manifestanti a fronte di un muro opposto, fino ad oggi, alle loro richieste.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.