Gli investimenti cinesi che rischiano di spaccare l’Europa

In Cina, Relazioni Internazionali by Cecilia Attanasio Ghezzi

Tutti gli ambasciatori dei Paesi dell’Unione europea a Pechino, con l’eccezione di quello ungherese, hanno firmato un misterioso rapporto che critica duramente gli investimenti cinesi sulla cosiddetta nuova Via della seta. A darne notizia è stato il quotidiano tedesco di economia e finanza Handelsblatt, che ha avuto visione di una copia e ne ha divulgato alcuni passaggi, virgolettati. Il ministero degli Affari esteri cinese «l’ha notato» e sostiene che l’Unione europa abbia chiarito. Ma a quanto apprendiamo non sembra.

TRATTATIVA ANCORA IN CORSO. La notizia è una bomba. Non solo perché si tratta di 27 Paesi su 28, ma perché tutti i Paesi europei hanno beneficiato di pesanti investimenti cinesi degli ultimi anni. Eppure il rapporto non esce, e nessuno ne vuole parlare direttamente. Secondo il quotidiano tedesco, servirebbe a preparare il prossimo Eu-China Summit, in agenda per il mese di luglio 2018. Fonti diplomatiche confermano a Lettera43.it che il rapporto esiste, ma che è ancora oggetto di trattazione. La Farnesina specifica che il commercio è un tema che fa capo all’Unione europea, e pertanto va discusso in quella sede. Politici che a vario titolo hanno avuto rapporti con il governo cinese, come chi opera nelle grandi aziende italiane, corrono a informarsi. Ma cosa dice il rapporto?

I virgolettati parlano di un piano, quello appunto della Belt and Road Initiative (Bri) che «va contro l’agenda Ue per la liberalizzazione del commercio e spinge gli equilibri di potere a favore delle aziende sovvenzionate dalla Cina». Ecco, sotto il cappello della nuova Via della seta vanno gli investimenti di quello che è stato ribattezzato il piano Marshall del XXI secolo. Coinvolge il 70% della popolazione mondiale, il 75% delle riserve energetiche e il 55% del prodotto lordo globale.

INVESTITI 96 MILIARDI NEL 2017. Secondo il Financial Times solo per i progetti che sono già sulla carta saranno necessari 890 miliardi di dollari. E infatti sono già state costituite due banche che metteranno a dura prova anche l’egemonia della Banca mondiale: la Banca per gli investimenti nelle infrastrutture asiatiche (Aiib) e la Banca per lo sviluppo asiatico (Adb). Da quando è stato lanciato ufficialmente nel 2013, le aziende della Repubblica popolare hanno investito in Europa cifre molto importanti. Dagli oltre 30 miliardi di dollari del 2014, si è arrivati a quasi 96 miliardi nel 2017. E gli investimenti sono perlopiù in asset strategici come infrastrutture e energia.

La Cina punta a firmare accordi di cooperazione bilaterali con i singoli Paesi giudicati da fonti istituzionali italiane «indigeribili». Sono i famosi Memorandum of Understanding tutti molto simili tra loro e di cui qualche copia circola online. Le stesse fonti spiegano che i punti che sono rimasti sullo stomaco a diversi Paesi europei sono l’assenza di specifiche sulle acquisizioni e l’accordarsi con i singoli Paesi su competenze che invece sarebbero comunitarie.

IL GRAN RIFIUTO BRITANNICO. Inoltre, si fa notare in ambienti vicini alle grandi partecipate italiane, finora almeno l’80% degli investimenti che vanno sotto il cappello di nuova Via della seta sono andate ad aziende cinesi, che il più delle volte sono aziende di Stato. In visita a Pechino a gennaio 2018, la premier Theresa May ha ufficializzato il fatto che il Regno Unito non firmerà il memorandum. È il primo Paese a farlo. Ma rende più significativa l’assenza di accordi con Germania, Francia e Commissione europea. Sarà un caso, ma è bene sottolineare che il documento firmato dai 27 ambasciatori è uscito con ogni probabilità dalla diplomazia tedesca.

È un tema che diventa politico e alimenta una spaccatura già esistente in Europa. Ungheria, Romania e Repubblica ceca, infatti, hanno già firmato l’accordo bilaterale. Per i Paesi più piccoli è quasi impossibile resistere alla tentazione degli investimenti cinesi e anche i governi che fronteggiano situazioni di crisi economica, come per esempio l’Italia, faticano a rifiutare la possibilità di fregiarsi di acquisizioni estere che, nell’immediato, hanno il benefico scopo di salvare aziende e posti di lavoro. Ma a lungo andare?

ALLE DIPENDENDENZE DELLA CINA. A sottolineare il cambio di passo sugli investimenti cinesi c’è la decisione del 2016 della Commissione europea di considerare la China General Nuclear Power Corporation (Cgn) e le altre aziende di Stato che operano nel settore dell’energia sotto la supervisione dell’organo nazionale di supervisione Sasac, come una singola entità economica alle dipendenze degli interessi della Repubblica popolare. Tra il 2008 e la fine del 2017 diverse aziende di Stato cinese, ora considerate una singola entità al servizio della Repubblica popolare, hanno investito un totale di quasi 49 miliardi in 18 differenti Paesi europei.

Solo in Italia hanno partecipazioni importanti in Ansaldo, Cdp Reti, Saipem e Edp e una piccola quota in Eni e Enel. Vista con queste nuove lenti, si potrebbe presto sottolineare l’esistenza di un abuso di posizione dominante. I timori di molti addetti ai lavori sono evidentemente molto profondi.

L’EUROPA TUTELA LA SUA UNITÀ. Il pericolo, come sottolinea al Ft Raffaello Pantucci, direttore del think tank britannico Royal United Services Institute, è che i memorandum d’intesa con Cina sulla nuova Via della seta siano talmente fumosi che l’Unione europea potrebbe «potenzialmente» appoggiare «progetti che mettono a rischio la coesione europea». È chiaro che l’Europa sta cercando, faticosamente, di tutelare la sua unità.

[Pubblicato su Lettera 43 il 20 aprile 2018]