Se tutto va come da programma, nel 2020 vedremo una Tokyo molto diversa da com’è oggi. Ci sarà un nuovo mega-stadio nazionale e, forse, meno pali di luce e telefono. Entro sei anni – il periodo che ci separa dall’inizio delle seconde Olimpiadi di Tokyo – la capitale giapponese dovrà essere al massimo dello splendore, dell’efficienza e dell’innovazione: ne va della "salvezza" della faccia nazionale. Partiamo da quello che è stato ribattezzato da qualche osservatore straniero “l’elefante bianco”. Scintillante, avveniristico, semplicemente esagerato; a forma di navicella spaziale, limulo (un simpatico crostaceo) o casco da ciclista: il progetto del nuovo stadio nazionale di Tokyo dell’archistar Zaha Hadid si presenta così, ognuno si scelga la similitudine che più gli piace:
[Foto credit: bustler.net]
Un progetto che ha lasciato perplessi in molti. Tokyo ha già molti stadi – ci sono ancora le strutture costruite cinquant’anni fa per l’evento che segnò l’inizio del miracolo economico giapponese – e questo Nuovo stadio nazionale è destinato a sorgere in una zona definita una vera e propria “oasi” nel bel mezzo della metropoli più abitata del mondo.
A criticare l’idea è uno dei membri di spicco della comunità degli architetti giapponesi. Fumihiko Maki, vincitore del Pritzker Prize (il Nobel per l’architettura) nel ’93, autore del restyling del Tokyo Metropolitan Gymnasium, nonché progettista della torre 4 del nuovo World Trade Center di New York, ha definito il progetto di Hadid assolutamente “ridicolo”.
In primis, occupa una superficie troppo estesa che rischia di compromettere il traffico delle arterie stradali circostanti e rovinare la vista dai giardini del santuario Meiji Jingu, i Jingu Gaien. Poi c’è la questione dei costi: la costruzione del Nuovo stadio nazionale – che ospiterà 80mila spettatori e sarà dotato di un costosissimo tetto retraibile – farà spendere allo Stato l’equivalente di quasi 1,4 miliardi di euro. Una spesa esagerata per molti, non per il comitato olimpico: il nuovo stadio di Hadid è, nella sua enormità, un edificio perfetto per l’era globale, in cui l’architettura possa essere – nelle parole di Tadao Ando, presidente della giuria che ha vagliato i progetti del nuovo stadio olimpico – a “beneficio di tutta l’umanità”.
Anche fuori dallo stadio qualcosa sembra destinato a cambiare, e in modo radicale. La prima e più importante proposta sembra essere quella di eliminare i piloni che reggono i cavi elettrici e del telefono, promossa dal “Gruppo parlamentare ristretto per l’eliminazione dei denchu (appunto i pali della luce)”. Un piccolo ma agguerrito gruppo di politici legati al Partito liberaldemocratico (PLD, Jimintō in giapponese) stufi di camminare su viali dove gli alberi si confondono con pali di cemento (o viceversa) sulla sommità dei quali ci sono centraline e grovigli di cavi elettrici, sormontati da altri grovigli di cavi.
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Per il turista europeo, panorami del genere significano una sola cosa: Giappone. Per alcuni tokyoti, invece, sono ormai un segno di insopportabile arretratezza moderna. Soprattutto in confronto a metropoli della stessa parte di mondo come Hong Kong, o a capitali globali come Parigi e Londra dove la percentuale di cavi interrati è dell’80 per cento.
“Antiestetici e a rischio caduta nell’evenienza di un grande terremoto”: sono queste le accuse ai denchu, mentre riaffiorano alla memoria immagini dei grandi disastri del passato, dal grande terremoto dello Hanshin del 1995 a quelle più recenti del terremoto e tsunami del Tohoku del 2011, con pali sovraccarichi di cavi piegati su un fianco o collassati sulla facciata di un edificio.
[Foto credit: www.izumi-home.net]
Oggi, scrive il Mainichi Shimbun, ci sono in tutto il paese oltre 3,5 milioni di pali, il cui numero aumenta di 70mila unità ogni anno. L’interramento delle connessioni volanti è infatti costoso e i lavori che dovevano essere già iniziati tempo fa in molte zone intorno alla capitale, come mostrato da un reportage della tv nazionale NHK, procedono a rilento.
In fondo dal 1869, i denchu fanno il loro sporco lavoro: portare luce e segnale telefonico non solo in città ma anche nelle aree più rurali di un paese da 120 milioni di abitanti e migliaia di isole.
E rendere in qualche modo unica la vista delle zone residenziali e delle stradine laterali delle città giapponesi. A Kyoto, sottolineava qualche tempo fa un articolo apparso sul magazine online The Page, qualcuno ha valutato i vantaggi di mantenerli in piedi. Si tratta, se vogliamo, di una forma di place branding: i tanto odiati pali in cemento sono diventati ormai parte dell’ “ambiente” che i turisti stranieri si aspettano di trovare nell’antica capitale imperiale.
[Anche su East Rivista di Geopolitica; foto credit: designboom.com]