Giappone – Salari, l’offensiva di primavera

In by Gabriele Battaglia

L’arrivo della primavera in Giappone coincide con la cosiddetta "offensiva" della bella stagione, ovvero delle contrattazioni tra parti sociali sugli stipendi dei lavoratori dipendenti del settore privato. Il risultato per i lavoratori è stato positivo quest’anno: secondo aumento degli stipendi di base in due anni. Il governo è soddisfatto. Ma rimane il problema delle disparità tra i lavoratori. Primavera tempo di fioriture e contrattazioni sui salari. In Giappone l’arrivo della bella stagione coincide con quella che in gergo si chiama “offensiva di primavera” (shunto), un confronto tra le organizzazioni di imprenditori e sindacati per l’aumento degli stipendi di base dei lavoratori (il cosiddetto base up, be-a in giapponese).

Una tradizione del sindacalismo aziendale giapponese – fondato su organizzazioni interne alle singole aziende e riunite in federazioni nazionali di settore a loro volta afferenti a confederazioni nazionali – risalente al primo dopoguerra; una pratica che porta in eredità le principali conquiste in termini di diritti sul lavoro e salari equi ottenute dai lavoratori giapponesi tra gli anni ’60 e gli anni ’90, prima del definitivo depotenziamento dei sindacati – che oggi contano appena il 17,5 per cento della forza lavoro nazionale – con lo scoppio della bolla economica nell’ultimo decennio del secolo scorso.

Dopo anni di stallo, il 2015 è il secondo anno consecutivo di aumenti in busta paga. Ma non per causa di una ritrovato vigore sindacale. L’aumento degli stipendi che, nelle previsioni del governo di Tokyo e della Bank of Japan (BOJ), rilancerà i consumi delle famiglie frenati quest’anno dall’incremento dell’equivalente della nostra IVA dal 5 all’8 per cento, è frutto in realtà della pressione del governo di Shinzo Abe sul mondo dell’impresa.

L’uscita dalla stagnazione economica su cui puntano Abe e il governatore della BOJ Haruhiko Kuroda, dopo le iniezioni di nuova liquidità nel mercato, passa infatti anche da qui. Più che il bene dei lavoratori è ancora una volta “abenomics” a contare.

Il 18 marzo scorso le principali aziende giapponesi del settore metalmeccanico e delle tecnologie hanno comunicato la propria controproposta alle richieste iniziali dei sindacati. Si tratta, per ora, in attesa della risposta delle organizzazioni dei lavoratori, degli aumenti più consistenti in poco più di vent’anni. Toyota, il più grande produttore giapponese di automobili, ha messo sul tavolo un aumento di 4000 yen (poco più di 30 euro) al mese per gli stipendi di base. Nissan è stata più generosa concedendo mille yen al mese in più rispetto alla sua concorrente. In percentuale i dipendenti delle due aziende percepiranno l’1 per cento del salario in più rispetto a prima.

Secondo alcuni analisti è un buon segno: “Le grandi aziende hanno iniziato a condividere i propri profitti con le famiglie”, ha spiegato a Bloomberg, Daiju Aoki dell’UBS. Ottimismo condiviso sempre nella giornata di mercoledì dal capo segretario di gabinetto Yoshihide Suga: “Lo scorso anno abbiamo concordato con i rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori un piano per l’innalzamento dei salari. Ci attendiamo che la tendenza verso l’aumento sia il più diffuso possibile”.

Critiche arrivano dalla sinistra. Shimbun Akahata, l’organo di informazione del Partito comunista nipponico, denuncia il fatto che le richieste dei sindacati non sono state soddisfatte fino in fondo. Esempio lampante il settore degli elettrodomestici, dove le imprese – colossi del calibro di Panasonic e Hitachi – hanno concesso appena la metà di quanto richiesto dai sindacati, cioè un aumento di 3000 yen (circa 23 euro) sui salari base.

C’è poi un problema strutturale al sistema del kansei shunto, la negoziazione manovrata dal governo: la sua fondamentale ineguaglianza. Un conto infatti sono le grandi aziende come Toyota, Nissan, Honda o, nel settore tecnologico, Panasonic, Sharp, Fujitsu e Hitachi; un altro sono le piccole aziende che potrebbero non permettersi la stessa generosità di aziende che hanno goduto nell’ultimo anno di profitti milionari – 21,1 trilioni di yen, 173 miliardi di dollari, riporta ancora Bloomberg – grazie allo yen in ribasso che ha ridato spinta all’export.

C’è poi un altro punto non affrontato dal governo: quasi il 40 per cento dei lavoratori giapponesi non è iscritto al sindacato. “Per chi è iscritto ci sono margini di trattativa per l’aumento; per chi non lo è diventa difficile” – spiega Hiroyuki Fujimura, economista della Hosei University di Tokyo, al Tokyo Shimbun, quotidiano della capitale. “In questo modo, le disparità tra i singoli lavoratori non faranno che aumentare”

[Scritto per il manifesto; foto credit: japantimes.co.jp]