Giappone – Otaku sì, sfigato no

In by Gabriele Battaglia

Quello degli otaku è un fenomeno che è riconosciuto da quasi due decenni, da quando cioè i primi cartoni animati giapponesi arrivarono anche in Europa e America. Da quell’epoca in avanti, la sua crescita non si è mai arrestata e ha raggiunto sempre più persone in sempre più Paesi del mondo. Tutti "sfigati" appassionati di manga, anime, videogame e cosplay? Da precise politiche di Stato alle nuove forme di socializzazione, c’è un mondo che va preso sul serio. Mezzo milione di persone erano attese lo scorso fine settimana a Makuhari, nella provincia di Chiba, a pochi chilometri da Tokyo. La cittadina costiera ha ospitato un evento mondiale particolare, il primo – a detta degli organizzatori – nel suo genere: un summit di otaku.

Otaku in giapponese significa “fanatico”, a tratti “sfigato”. È una parola ormai di uso comune anche in italiano. Tanto che il dizionario online Treccani riporta al lemma:

Giovane appassionato di fumetti e animazione giapponese che trascorre la maggior parte del proprio tempo in casa, dedicandosi in modo quasi ossessivo al collezionismo, ai giochi elettronici, a Internet, alle relazioni mediatiche a sfondo sessuale; relativo a tale fenomeno giovanile.

Seguono citazioni da articoli dei principali quotidiani italiani sul tema ormai sempre meno di nicchia e sempre più importante per almeno due fattori.

Dal punto di vista geopolitico, la diffusione della cultura pop giapponese – e relative sottoculture – in tutto il mondo sembra essere frutto di precise strategie di “localizzazione” promosse delle grandi aziende e delle corporation del settore media del Sol Levante e spesso sostenute dallo Stato. Il libro Recentering Globalization (2002) di Koichi Iwabuchi, docente di Media e Cultural Studies alla Monash University di Melbourne, con un passato da produttore della Nippon Television, aveva gettato luce su queste dinamiche in Asia.

Il Giappone si trova su una formidabile riserva di soft power – scriveva negli stessi anni Douglas McGray su Foreign Policyma ha pochi mezzi per sfruttarlo”. Negli ultimi dieci anni l’impegno di Tokyo per promuovere all’estero fenomeni di cultura locale – ha ricordato più di recente Patrick St. Michel su The Atlantic – è stato surclassato da fenomeni come la Korean Wave o dalla rete capillare degli Istituti Confucio dei "vicini" coreani e cinesi.

Negli ultimi anni, a dispetto dell’iniziativa ministeriale “Cool Japan”, molti prodotti culturali giapponesi sono diventati virali senza alcun intervento dall’alto del governo. St. Michel ricorda ad esempio i casi delle Babymetal o Kyaryu Pamyu Pamyu, ma si potrebbe fare anche il nome di Hatsune Miku, la pop-star digitale che abbiamo visto qualche tempo fa impegnata in un tour mondiale.

Ora, principalmente da quando Tokyo si è aggiudicata le olimpiadi del 2020, l’intento è di passare ad un piano operativo top-down. Tanto che da iniziativa molto vaga, il “Cool Japan” è diventato un fondo milionario a partecipazione pubblica per il sostegno alla promozione culturale – dai manga al cibo, dalla moda all’artigianato.

Il secondo punto riguarda l’evoluzione del nostro modo di consumare i “prodotti culturali”. Il boom del cosplay, uno delle colonne della cultura otaku contemporanea, ne è un esempio. Nel cosplay – crasi di “costume play” – i fan di una serie tv o di un film americani, di un manga o di un anime giapponesi, non sono solo consumatori passivi. La loro interpretazione del loro personaggio favorito prevede una fase di ricerca e di produzione artigianale.

L’Italia, piccola nota curiosa, è tra i Paesi leader nel cosplay e da anni si piazza ai vertici della più importante manifestazione mondiale di settore che si tiene a Nagoya in Giappone.

Una passione che non è più di nicchia e che unisce sempre più persone ai quattro angoli del mondo. E che vale la pena di conoscere meglio per far sparire l’etichetta di sfigati affibiata agli otaku. 

 

[Scritto per East online; foto credit: thesundaily.my]