Giappone – Okinawa, scontro sulle basi Usa

In by Gabriele Battaglia

Molti la conoscono come paradiso tropicale o, per i più appassionati di cose giapponesi, come patria del karate (ricordate il maestro Miyagi?). Eppure da quasi mezzo secolo qui si gioca una partita tra governo di Tokyo, cittadinanza e governo locale. Ma oggi che questi due attori sono dalla stessa parte, il governo centrale fa orecchie da mercante. Vista da Tokyo – o per lo meno dallo Honshu, l’isola maggiore dell’arcipelago – Okinawa, la provincia più a sud del Giappone, è un corpo esotico ed estraneo, l’eccezione all’ipermodernità, un posto ideale per il buen retiro post-pensione.

Per i governi giapponesi è forse il più grosso grattacapo economico, geopolitico e, da qualche settimana, anche politico dal dopoguerra ad oggi.

[Fonte: okinawa-institute.com]

Negli ultimi giorni le proteste contro lo spostamento della base militare di Futenma, dove sono di stanza migliaia di marine Usa, sono arrivate a Tokyo. Ma il governo, oggi impegnato nella soluzione del nodo ostaggi in mano all’Isis, intende andare avanti sulla costruzione di una nuova base militare a Henoko, nonostante l’opposizione della popolazione locale e del nuovo governatore provinciale. 

Partiamo da un dato: da oltre 40 anni l’arcipelago di Okinawa e in particolare la sua isola principale, che dà il nome all’arcipelago e alla provincia, ospita decine di migliaia di militari statunitensi – più di 20 mila, dicono i dati disponibili – stanziati in 33 strutture tra basi aeree, magazzini, centri di comunicazione, d’addestramento o di relax. Turismo e militari costituiscono le principali voci di profitto nell’economia locale.

Okinawa – fino alla fine del XIX secolo sede di un regno indipendente, tributario dell’Impero cinese – è oggi “pietra angolare” del patto d’alleanza tra Tokyo e Washington, snodo strategico fondamentale per la strategia degli Stati Uniti in Asia-Pacifico: da qui partono i droni USA che spiano le mosse di Cina e Corea del Nord. Ed è ancora da qui – come già successe per il Vietnam – che partirebbe un’eventuale offensiva aerea contro i due avversari della Casa Bianca.

Qualcuno potrebbe dire che non c’è niente di più sicuro che stare sotto l’ombrello protettivo americano. E invece no. Per chi vive nei pressi delle basi militari – che occupano il 20 per cento del territorio abitabile dell’isola – la vita è un inferno. L’inquinamento, il boato dei jet militari che decollano a un passo dalle case, il rischio che un aereo sbagli manovra e rovini su case, scuole uffici pubblici.

Immaginate, grosso modo, una superficie grande quanto la provincia di Pordenone (poco più d 2mila km quadrati) ricoperta di infrastrutture militari (più del 70 per cento del totale sul territorio nazionale). Come in una partita di Risiko in cui per difendere un territorio si accumulano carrarmatini su carrarmatini.

Solo che, in questo caso, le cose non vanno proprio come nel famoso gioco da tavolo: sono oltre mille i casi di violenza, gran parte dei quali a Okinawa, collegabili alla presenza militare americana su suolo giapponese denunciati alle autorità locali tra il 2005 e il 2013. E non si tratterebbe di poche “mele marce”dei militari Usa qui di stanza.

Come si legge in un reportage di Christine Ahn dello scorso dicembre, un’associazione di donne okinawane ha raccolto informazioni su rapporti di polizia e articoli di giornale anno per anno dal 1945 al 2012 sugli “inconvenienti” della presenza americana nell’isola. Casi emblematici come lo stupro di una bambina di 12 anni per mano di tre soldati americani nel 1995 o di una 14enne nel 2008 sono solo la punta dell’iceberg di quella che è una violenza “strutturale” ai danni della popolazione locale e in particolare delle donne.

Tutte scintille che rinfocolano un sentimento anti-basi – e pacifista, vista la storia dell’isola: si stima infatti che nella battaglia di Okinawa del 1945 sia morto un terzo della popolazione civile dell’isola – diffuso sull’isola. Ma è in particolare la questione dello spostamento della base aerea di Futenma – a nordest della capitle dell’isola Naha, in una zona abitata da poco più di 90mila persone – in un’altra località dell’isola – Henoko, nella città di Nago – oggi a mettere Tokyo e Okinawa sui due lati di una barricata. 

Sulla questione si gioca da oltre un decennio un braccio di ferro tra popolazione locale e governo di Tokyo. Da una parte, gli okinawani vorrebbero lo spostamento della base lontano dall’isola; dall’altra il governo, nonostante promesse mai mantenute di voler ridurre la presenza americana, cerca di preservare lo status quo nelle relazioni con l’ingombrante alleato.

Nelle scorse settimane, Henoko è tornata al centro delle cronache locali, con centinaia di persone che hanno organizzato sit-in davanti ai cancelli della futura base. Dalla parte della popolazione, da poco meno di un mese, c’è anche il nuovo governatore provinciale: Takeshi Onaga. Nei giorni scorsi Onaga, che nel suo discorso di inizio anno ha confermato che bloccherà ogni progetto di nuove basi militari, si è recato a Tokyo per discutere della questione con il governo ricevendone soltanto la totale indifferenza.

Nel budget del 2015, inoltre, il governo Abe ha deciso di tagliare del 10 per cento i finanziamenti alla provincia di Okinawa, probabilmente come rappresaglia a seguito del risultato elettorale negativo per il partito liberaldemocratico oggi al governo, sconfitto in tutti e quattro le circoscrizioni elettorali dell’arcipelago. Per la popolazione locale, intanto, oltre al danno, la beffa.

Intanto a Washington, ha denunciato giorni fa dalle pagine del Japan Times Sayo Saruta, direttrice di un think tank giapponese con base negli Stati Uniti, sul caso Okinawa continuano a esserci ignoranza e indifferenza.

Quella di Okinawa, come spiega la storica del Giappone Rosa Caroli, continua a essere una storia “dissonante”, rispetto al centro e all’immagine che esso proietta all’esterno. Una storia che nessuno, né a Tokyo né a Washington, sembra intenzionato ad ascoltare.

[Anche su East Rivista di Geopolitica; foto credit: japantimes.co.jp]