Giappone – Non c’è alternativa al ritorno al nucleare?

In by Gabriele Battaglia

La Nuclear Regulation Authority, l’organismo indipendente che supervisiona gli standard di sicurezza degli impianti nucleari giapponesi, ha dato l’ok questa settimana alla riattivazione di una centrale nel sud dell’arcipelago. Un primo passo per il ritorno al nucleare del paese voluto dal premier Abe. Dovrà però vincere l’opposizione popolare, che continua a esserci e ha creato spazi per alternative dal basso. Nonostante i giapponesi siano troppo spesso dipinti come un popolo passivo. C’è un messaggio che il primo ministro Shinzo Abe cerca di far passare al suo paese da quando è entrato in carica nel dicembre 2012: il Giappone può farcela a uscire dal suo torpore. Per fare questo deve rivedere in parte la sua storia e guardare al domani. Un futuro in cui grazie a un rinnovato sentimento di appartenenza e identità nazionale nei cittadini giapponesi, l’economia dopo vent’anni di stagnazione ritornerà a girare. Così come gli oltre 50 reattori nucleari sparsi su tutto il territorio dell’arcipelago del Sol Levante.

Abe, rampollo di una potente dinastia politica dalla carriera fulminante – nel 2006 diventa il più giovane primo ministro dal dopoguerra – oggi leader conservatore e a tratti populista del Partito liberaldemocratico (LPD) che dal dopoguerra è quasi sempre stato al potere, ha un’idea ben precisa di “Giappone”.

L’11 aprile scorso Tokyo ha approvato un nuovo piano nazionale di base per l’energia. A poco più di tre anni – l’11 marzo di quest’anno cadeva l’anniversario – dall’incidente nucleare più grave degli ultimi tre decenni, il Ministero dell’economia, dell’industria e del commercio ha riaffermato l’importanza dell’energia nucleare come “fondamento” nella strategia energetica nazionale dei prossimi tre anni. Importare combustibili fossili da Sudest asiatico e Medio-oriente inizia a pesare sulla bilancia commerciale nipponica e riavviare le centrali nucleari è una soluzione economica che guarda al bene di tutti.

O almeno questo è quanto il governo di Tokyo vorrebbe far credere ai cittadini giapponesi, mentre gli entusiasmi per la politica economica aggressiva di Abe – la “abenomics” – si sono esauriti, e al contrario sono tornati timori per il debito pubblico e il deficit commerciale rampanti del Sol Levante.

In aiuto al villaggio nucleare

Il ritorno al nucleare deve aver fatto felici molti a "Genshiryoku mura". Il “villaggio nucleare” non è un luogo fisico, ma un’espressione usata per descrivere un network di potere che unisce da esponenti dell’industria del nucleare a parlamentari, settori della burocrazia statale, dei media e dell’accademia. Una lobby che ha numerose voci in capitolo nella politica energetica del governo di Tokyo e che cerca di salvare i bilanci delle utility dell’energia, che oggi chiedono aiuto al governo.

Un posto speciale nel “villaggio nucleare” lo occupa Tepco, l’azienda elettrica di Tokyo, nazionalizzata a giugno 2012 dopo aver rischiato la bancarotta. Errori nella gestione delle fughe di acqua radioattiva dall’impianto danneggiato di Fukushima numero 1 e ritardi nella comunicazione sono all’ordine del giorno. Intanto all’estero ci si interroga sul perché, di fronte alla volontà della politica di ritornare al nucleare in queste situazioni, i giapponesi rimangano apparentemente passivi.

Masao Maruyama, uno dei più importanti intellettuali del dopoguerra, si interrogava sul perché i giapponesi avessero accettato passivamente il regime militare che li ha poi portati alla disfatta. Con Tepco sembra stia succedendo la stessa cosa.

Ma per capire che cos’è Tepco bisogna dare un’occhiata ai suoi numeri: essa dà energia al 70 percento delle aziende che operano nella zona del Kanto, la regione dove si trova l’enorme conglomerato urbano della capitale nipponica (un’area metropolitana da oltre 35 milioni di abitanti) e a diverse aree del Nordest del paese. È la prima utility energetica del Giappone – la quarta del mondo – e ha quasi 40 mila dipendenti. I suoi numeri sono quelli di un colosso. E ingente è il suo passivo che si aggira intorno ai 700 miliardi di yen.

In una conversazione con chi scrive in un locale di Kyoto a gennaio scorso Yasuo Yoshikawa, artista e presidente di una ong locale che si occupa di organizzare attività ricreative nelle aree colpite dal disastro del 2011, ci ha confermato che “la gente del luogo fatica a parlare contro Tepco. Non dobbiamo dimenticare che l’energia nucleare dà ancora lavoro a moltissime persone”. Tra Tepco – e in generale, con gli altri "abitanti" del villaggio nucleare – il governo di Tokyo e i giapponesi sembra esserci quindi un ricatto silenzioso, difficile da spezzare.

Giapponesi, passivi e omogenei?

Yoshio Sugimoto, autore di An Introduction to Japanese Society (2010, 3a ed.), ha descritto con precisione le dinamiche della “passività” giapponese. Esistono diverse forme di “regimentazione” degli schemi di pensiero e dei comportamenti quotidiani dei giapponesi. Sugimoto le chiama “autoritarismo amichevole”, in quanto valorizzano l’ordine e l’obbedienza attraverso forme di controllo più o meno visibile (associazioni cittadine, di settore, gruppi di valutazione aziendali, centrali di polizia di quartiere, ecc.) e più o meno piacevoli (uso di canali di socializzazione per il rinforzo di forme di rispetto verso i superiori, lo sfruttamento di forme di propaganda “piacevole” dell’autorità come canzoni, arti visive, ecc.).

Nell’affermare a luglio 2012 che quanto successo era stato “causato dall’uomo”, il presidente della Commissione parlamentare per le indagini sull’incidente nucleare Kiyoshi Kurokawa aveva scritto che “Le cause fondamentali [dell’incidente di Fukushima] vanno trovate nelle convenzioni della cultura giapponese: la nostra obbedienza riflessiva, la riluttanza a mettere in dubbio le autorità, la devozione per l’adesione al programma, il nostro spirito di gruppo, la nostra insularità”.

Parole criticate ad esempio da Naoko Shimazu, docente alla Birbeck University di Londra dalle pagine del Guardian, per rafforzare, senza spiegarli, “stereotipi culturali sul Giappone e i giapponesi”.

Come quello di un popolo “omogeneo” dal punto di vista etnico e culturale, come nessun altro al mondo. Un popolo obbediente, disciplinato e disposto al sacrificio per il bene collettivo, insomma un popolo di soldatini obbedienti come il tenente Onoda, uno degli ultimi soldati giapponesi ad arrendersi trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale: sono queste le rappresentazioni dei giapponesi – insieme al loro essere amanti dei manga e degli anime, o inventori di oggetti bizzari – più diffuse all’estero.

Una rappresentazione interessata

La mattina del 13 marzo scorso, quasi duemila persone hanno dato l’ultimo saluto all’ultimo “eroe” giapponese, Hiroo Onoda. Il luogo in cui si è tenuta la cerimonia funebre, il tradizionale owakare-ai, è tutt’altro che casuale: il santuario Yasukuni, un luogo tanto amato da militanti e politici di destra, tra cui l’attuale premier Shinzo Abe, quanto irritante per i leader di Cina e Corea del Sud. Qui, nel pieno centro di Tokyo, sono onorati i caduti di tutte le guerre del Giappone – criminali di guerra compresi.

Onoda è morto lo scorso gennaio a 91 anni. Alla fine del 1944, quando la guerra del Pacifico era ormai persa per le forze dell’Impero giapponese, era stato inviato a Lubang nelle Filippine per condurre operazioni di guerriglia nella giungla. Si arrese solo nel 1974 e tornò in patria da eroe. Non importava che durante i suoi anni di guerriglia, avesse ucciso e derubato dei civili.


[Onoda davanti al presidente filippino Ferdinand Marcos; foto: Asahi Shimbun/Getty]

Per trent’anni aveva obbedito all’ultimo ordine ricevuto dai suoi superiori: “impedire l’invasione nemica”. Per trent’anni si era rifiutato di credere a quei manifesti che piovevano dall’alto del cielo annunciando la sconfitta del Sol Levante e la fine della guerra. Nel frattempo il suo paese veniva bombardato, Tokyo veniva rasa al suolo dalle bombe incendiarie e Hiroshima e Nagasaki venivano devastate da due bombe atomiche. La guerra era finita.

Più o meno negli stessi anni in cui la storia del tenente Onoda veniva resa pubblica, lo psicanalista Takeo Doi, nel suo saggio Amae no kozo del 1971, tradotto in inglese come The Anatomy of Dependence – da cui il titolo italiano, Anatomia della dipendenza – sosteneva l’esistenza di un tratto comune a tutti i giapponesi: la loro assenza di un’individualità definita e il loro trarre soddisfazione nell’essere guidati e costantemente stimolati a raggiungere obiettivi di gruppo dai propri superiori.

L’opera di Doi attirò parecchia attenzione su di sé, soprattutto negli Stati Uniti, dove Edwin Reischauer, ex ambasciatore USA in Giappone e tra i padri fondatori degli studi giapponesi del dopoguerra, scrisse anni più tardi che i giapponesi possedevano, quasi come fosse un tratto genetico, una mentalità “di gruppo” opposta all’individualismo “occidentale”. L’egemonia economica statunitense iniziava a vacillare mentre il successo economico giapponese – crescita in media al 10 percento tra gli anni ’60 e ’70 – iniziava a essere evidente.

Eppure, quella rappresentazione dei giapponesi come un popolo omogeneo, senza distinzioni di etnia e classe, uniformato nel pensiero a seconda della propria appartenenza a questa o quella azienda o università, animato dallo spirito samuraico non serviva solo alle aziende americane impegnate a trovare soluzioni per sostenere la propria competitività contro l’avanzata giapponese.

Come spiega ancora il sociologo Yoshio Sugimoto, tale immagine non corrispondeva alla realtà multietnica e socialmente variegata del Giappone; era bensì “prodotta” ed “esportata” dalla stessa élite dominante – politici, accademici, vertici delle grandi aziende del paese, per riaffermare la propria egemonia. Ciò che interessava loro diventava così “interesse nazionale”. Omote e ura, fronte e retro. Senza afferrare il secondo non si può comprendere il primo.

Nucleare zero, merito dell’attivismo popolare

Eiji Oguma è, nel panorama intellettuale del suo paese, tra le voci più critiche nei confronti del governo di Abe e co. Oguma, docente di sociologia storica all’università Keio di Tokyo e autore di un testo che ha messo in discussione “il mito dell’omogeneità” giapponese, è stato tra i numerosi intellettuali impegnati nelle proteste anti-nucleari che si sono tenute nella capitale per oltre un anno a partire da luglio 2012. In un suo articolo di dicembre 2013 comparso sullo Asahi Shimbun, sosteneva che negli ultimi tre anni, il Giappone è stato il paese che, a livello internazionale, ha fatto il cambiamento più radicale nell’allontanarsi dal nucleare.

Al momento, dei 54 reattori nucleari presenti in Giappone, “non ce n’è uno che sia operativo”. A parte per un breve periodo in cui sono stati riattivati due reattori della centrale di Oi – continua Oguma – nella provincia di Fukui a sudovest dell’isola principale dell’arcipelago, per tre anni il Giappone ha vissuto nel gempatsu zero, ovvero senza energia nucleare, a scapito del “villaggio nucleare”. Un fatto impressionante se si considera che prima dell’incidente di marzo 2011 essa costituiva un terzo dell’approvvigionamento energetico totale del paese. Merito, conclude il sociologo giapponese, dell’attivismo dei cittadini giapponesi, che oltre ad aver raccolto milioni di firme, a essere scesi in piazza contro il nuclere, hanno cercato e continuano a cercare alternative.

Un esempio è quello di Ryozen, una piccola cittadina delle provincia di Fukushima. Qui l’associazione locale dei coltivatori e allevatori con l’organizzazione no profit Shizen Enerugii Shimin no Kai (Associazione di cittadinanza per le energie rinnovabili) di Osaka, nel Centro dell’arcipelago, hanno organizzato una raccolta fondi a livello nazionale per costruire di una centrale solare, un esperimento di crowdfunding nel settore energia. In totale sono stati raccolti 20 milioni di yen (poco più di 142 mila euro) che hanno finanziato la costruzione dell’impianto terminata a settembre dello scorso anno.


[Il comitato per la realizzazione del campo solare pubblico di Ryozen. Foto credit: jfs.org]

“Il momento più buio prima dell’alba”

Nel frattempo però anche i media internazionali sembrano sposare le posizioni dell’establishment di Tokyo e danno per spacciato il movimento anti-nuclearista: a inizio aprile nel blog Banyan dell’Economist, si leggeva di come le proteste contro la riattivazione delle centrali nucleari si stesse lentamente spegnendo. Di più ci sarebbe l’incapacità della politica di farsi interprete del desiderio anti-nucleare dei giapponesi. Da diversi sondaggi effettuati a partire da luglio 2011, una media del 70 percento dei giapponesi sarebbe contro la riattivazione delle centrali.

Alle elezioni per il governatore di Tokyo dello scorso febbraio, però le formazioni anti-nucleari hanno perso a favore del candidato supportato dall’LDP, Yoichi Masuzoe, che ha puntato su temi come sicurezza sociale e i preparativi olimpici. Secondo Oguma, gli scarsi risultati ottenuti alle ultime votazioni dalle formazioni politiche che propagandano il nucleare zero, dipendono non tanto dalla passività dei giapponesi, quanto dalla loro scarsa fiducia nei rappresentanti politici che da sostenitori del nucleare hanno abbracciato la causa no nuke per fini elettorali. La trasformazione dell’ex premier Jun’ichirō Koizumi, mentore del premier Abe, da promotore del boom nucleare nei primi anni 2000 a paladino dell’antinuclearismo ha suscitato diverse perplessità.

Come ha spiegato a China Files Akihiro Ogawa, professore associato presso l’università di Stoccolma che ha studiato i movimenti popolari contro le centrali nucleari in Giappone a partire dall’estate del 2012, i movimenti antinucleari giapponesi in questo momento non sono affatto passivi o deboli. Iniziano a comparire anzi i primi segni che una politica energetica dettata dal basso è possibile. “Dai miei studi sul campo ho notato che c’è un desiderio per nuove strade verso fonti energetiche rinnovabili e sostenibili, maggiore controllo a livello locale sulla produzione di energia verde e una più estesa partecipazione pubblica alle decisioni”. “Oggi – conclude Ogawa – è solo il momento buio poco prima dell’alba”.

[Scritto per Pagina99 we; foto credit: theguardian.com]