Esercito di liberazione popolare. S.p.a.

In by Simone

Il legame fra guerra e finanza esiste, soprattutto in Cina. Negli anni ’80-’90 i profitti annuali delle attività commerciali dell’Esercito erano di circa sei miliardi di dollari. Sì, perché qua perfino l’esercito è un’azienda. Oggi le cose sarebbero cambiate. Almeno in apparenza. L’analisi di Chian Files.

Prima dell’apertura della Cina ai capitali esteri, che avrebbero dato avvio all’epoca della Riforma e avrebbero creato la macchina economica che oggi vediamo scintillare nel panorama economico mondiale, c’erano alcuni cinesi che già sentivano dentro di sé il fuoco del capitalismo. Società, ingabbiate in altre, dapprima nazionali, con addirittura speciali regolamentazioni in termini di tasse. Poi nel 1984 – proprio all’inizio delle Riforme – la prima società transnazionale, formata da 34 aziende, lanciata nel mondo della produzione farmacologica. In grado di produrre profitti esorbitanti, vendendo all’estero.

Questi capitalisti, avventurosi e un po’ sperimentali, erano niente meno che militari. Soldati, ufficiali, imprenditori ante litteram. Zhao Xinxian, il presidente della Sanjiu Enterprese Group, creata dai militari, ebbe a dire: «Il nostro obiettivo quando creiamo un’azienda, è aumentare il potenziale finanziario dell’esercito: io sono un miliare, uno stratega militare. E anche quando apro un’azienda, rimango un militare».

Anni Novanta. Secondo l’Economist, che nel 1993 aveva condotto un’inchiesta dal titolo “Asia’s arms race” i profitti annuali delle attività commerciali dell’Esercito cinese erano di circa sei miliardi di dollari. Una bella cifra, per dei soldati. Da allora ad oggi, però, qualcosa è cambiato, almeno in apparenza.

L’esercito cinese e il business
In una contemporaneità sempre più multipolare, la Cina ha la sua posizione ufficiale, oggi: heping jueqi, la “crescita pacifica”. Contestualmente il Partito comunista cinese tiene le redini del corpo militare più grande del mondo: l’Esercito di liberazione popolare, 2 milioni e 300 mila unità che oggi godono di un budget di meno di un quarto della spesa militare americana (circa 130 miliardi di euro) ma che è previsto possa addirittura superarlo nel 2035.

A rendere le cose ancora più complicate è la mancanza di trasparenza che caratterizza tutti gli alti piani della politica cinese. Partito e Stato sono in Cina due entità molto vicine eppure distinte e l‘Esercito di Liberazione Popolare, caso unico tra gli eserciti di tutte le grandi potenze, non fa capo al Ministero della Difesa, ma alla Commissione militare centrale che è un organo del Partito e come tale dipende da dinamiche ancora più difficilmente comprensibili dall’esterno. La sua nascita risale al 1 agosto del 1927, quando a Nanchang la cosiddetta Armata rossa cinese – allora parte delle truppe del Guomingdang – si ribellò al suo Generalissimo Chiang Kai-Shek e intraprese quel lungo cammino che in trent’anni portò alla fondazione della Repubblica popolare cinese.

Nel 1950, l’Esercito di liberazione popolare era un’organizzazione che oltre all’artiglieria poteva vantare una flotta navale e aerea, forze di pubblica sicurezza e militari-lavoratori. La prima fase di modernizzazione dell’esercito comincia in questi anni in collaborazione con l’Unione sovietica di allora, ma viene subito interrotta dal decennio di Rivoluzione culturale imposto da Mao Zedong. La Cina riparte all’inizio degli anni Ottanta: Riforme economiche e apertura.

Lo slogan “arricchirsi è glorioso” vale anche per l’Esercito.
Il suo budget è meno di 1,5 punti del povero Pil nazionale, ma può – anzi è caldamente invitato – a ingegnarsi a trovare vie alternative per arrivare al denaro. Così l’Esercito di Liberazione Popolare ritrova il suo modello autarchico dei tempi precedenti alla Rivoluzione, quando produceva esso stesso i generi alimentari e le medicine che gli erano utili a sopravvivere e vestiva i soldati con abiti e calzature che esso stesso produceva.

Così le alte sfere dell’Esercito di liberazione inizialmente guadagnarono ingenti somme di denaro nel mercato immobiliare. Avevano occupato terreni e stabili alla fine della Rivoluzione culturale, quando furono chiamati a restaurare l’ordine. All’epoca l’immobiliare non valeva molto, ma con il tempo si era trasformato in una miniera d’oro, e i militari cominciavano a guadagnarci grosse somme. Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, il patrimonio dell’Esercito vantava centinaia di alberghi di lusso.

E la loro forza economica non si fermava a questo. Rendendosi conto dell’accesso privilegiato che potevano vantare su tutto il sistema delle infrastrutture, affittavano alle compagnie di bandiera porti e aeroporti. Le sue attività commerciali si erano estese a macchia di leopardo: telecomunicazioni, farmaceutica, compagnie finanziare nightclub e case chiuse.

Neanche a dirlo, Deng Xiaoping chiudeva un occhio sulla corruzione che si diffondeva con la stessa velocità della ricchezza. Fintanto che il denaro confluiva nel budget delle spese militari che lo stato non era in grado di affrontare, valeva la pena fare finta di niente. Alla fine degli anni Novanta la stessa stampa di Partito, calcolava che l’impero commerciale dell’Esercito valeva 50 miliardi di yuan, con profitti annuali del 10 per cento.

Contestualmente il Partito, sotto la guida di Jiang Zemin, intraprese una nuova sfida: voleva trasformare la Cina in una potenza moderna, globale e competitiva e l’economia di stato doveva essere rimpiazzata dal mercato e dalla legge. Improvvisamente tutto il sistema dell’Esercito di liberazione popolare era sotto accusa: niente più vantaggi personali o privilegi speciali.

Quando il presidente Jiang Zemin, nel 1998, ordinò al corpo militare di liberarsi di tutte le attività commerciali, lo fece sotto la spinta dell’opinione pubblica che non riconosceva più nei militari dei professionisti, ma solo un manipolo di corrotti con l’unico interesse di arricchirsi. L’Esercito d’ora in poi, disse il presidente Jiang nel 1997, mangerà solo il riso dell’imperatore. Secondo molti analisti la decisione di Jiang aveva due motivazioni: in primo luogo perché Jiang non aveva avuto il tempo e la capacità di impossessarsi dei militari come aveva fatto il suo predecessore e in secondo luogo perché la corruzione che dilagava nell’esercito avrebbe sottratto alle casse dello stato, all’epoca, circa 12 miliardi di dollari all’anno. Un po’ troppi.

Vera riforma?
Ni. Perché se è vero che con il tempo molto del business direttamente controllato dall’esercito è stato abbandonato, attraverso famigliari e prestanomi non sono i pochi i papaveri militari cinesi impegnati a gestire ancora oggi, indirettamente, compagnie e business almeno stando a quanto dichiarato dagli esperti del settore. Anche se – essendo in Cina – si tratta di sospetti e neanche una prova. Tanto che, nonostante la patina di silenzio, la corruzione tra le alte sfere dell’esercito appare ancora oggi dilagante, come nel resto della società cinese, a confermare interessi extra militari ancora presenti.

«In molti casi» ha raccontato a China Files June Teufel Dreyer, professoressa di Scienze Politiche ed esperta di affari militari cinesi dell’Università di Miami « l’Elp ha semplicemente mollato le attività meno redditizie, per proseguire a gestire, in modo differente, il business più conveniente». Un esempio? «Privatizzando il business attraverso contratti tra esercito e società gestite da mogli o figli» spiega la Dreyer.

Una spiegazione è data da un altro esperto di affari militari cinesi, Tai Ming Cheung, Direttore dell’Insitute on Global Conflict and Cooperation: «l’ultima volta che l’Elp ha seriamente tentato di ripulire la propria casa – ha scritto in un intervento on line su questioni legate al mondo militare cinese – è stato durante i suoi sforzi per cedere parte delle sue imprese economiche alla fine degli anni 90». Da notare che se il mandante era stato Jiang Zemin, l’esecutore della decisione fu l’attuale presidente Hu Jintao, impegnato nel suo primo compito da Vice Presidente della Commissione Militare Centrale, considerato il viatico dei futuri leader del paese.

La campagna – stando al parere degli esperti – ebbe un discreto successo, ma solo perché le autorità centrali avevano deciso che l’Elp non era ormai più affidabile per gestire la mole di soldi che procurava. Il giro di vite fu strutturale più che sui corrotti, perché gli interventi contro “le mele marce”, secondo Tai Ming Cheung, «furono limitati», ma offrirono tuttavia alcune linee guida per affrontare il problema della corruzione nell’esercito cinese: per ovviare a questo vizio, oggi come oggi servirebbe un vero impegno politico dei capi del Partito. Come ricorda Tai Ming Cheung «nel 1998, quando la leadership civile ha ordinato ai militari di abbandonare il business, erano al comando due autorità del calibro di Jiang Zemin e Zhu Rongji perché tutto accadesse per davvero. È difficile immaginare l’attuale leadership civile in una battaglia del genere, oggi».

Oggi, inoltre, la corruzione militare sembra essere di gran lunga più diffusa in tutto il sistema militare e l’assenza di dure repressioni anti-corruzione per oltre un decennio ha significato che il rischio di essere arrestato per i militari è relativamente basso, a meno che il prossimo capo del paese, Xi Jinping, non abbia intenzione di rivoluzionare l’esercito e andare in fondo al cuore del problema. Un’altra sfida difficile, vista la turbolenza del mare del Sud, il peso che ancora l’esercito avrebbe nella bilancia politica locale e l’impegno cinese in ambiti internazionali, come testimoniano le sue navi giunte nel cuore del Mediterraneo e troppo vicine alla Siria, secondo molti osservatori.

[Scritto per Linkiesta; foto credits: theepochtimes.com]