Dragonomics – Win Win alle porte di casa

In by Simone

Appunti da un recente viaggio nello Stato Kachin della Birmania. La Cina e la necessità di compiacere diversi partner che si fanno la guerra, in un adattamento del modello di espansione economica già criticato in Africa. Utilitarismo e cerchiobottismo La strategia espansiva della Cina sui mercati in via di sviluppo è stata più volte criticata. Guardando soprattutto all’Africa, vari osservatori hanno definito ciò che la leadership di Pechino chiama “strategia win-win” come una forma di imperialismo economico in cui chi “win” è sicuramente la Cina stessa – che ottiene preziose materie prime, impiego per la propria forza lavoro e uno sbocco per i suoi prodotti low-end – nonché le elite locali, che si riempiono le tasche di soldi cinesi, spesso opportunamente stornati dagli investimenti produttivi e senza ridistribuzione alcuna.

La politica estera cinese è condizionata da questa esigenza economica: non distingue tra “Stati canaglia” e “amici” (tra cui i famosi “bastard” che però sono “our bastard”, come Washington insegna) e si attiene alla linea di non intromissione nelle altrui questioni interne. Chi governa è il nostro interlocutore – dicono a Pechino – come poi tratti i suoi cittadini o sudditi non è affare che ci riguardi (il che contiene anche un monito politico implicito a urbi et orbi: “Tibet, Xinjiang e Taiwan sono fatti nostri, nessuno ci metta bocca”).

In questo quadro, chi spesso “non win” sono invece le classi subalterne dei Paesi dove la Cina investe e succhia materie prime: chi vive di economia di sussistenza e spesso di agricoltura finalizzata alla semplice autosufficienza alimentare, che spesso sconta quello sconvolgimento di delicati equilibri ecologici provocato da miniere, dighe, gasdotti e oleodotti, nonché la repressione militare da parte di elite ulteriormente rafforzate dal denaro cinese.
That’s globalization, baby, c’è chi salta sul carro e chi resta giù.

Ora, la domanda è: il modello win-win del Dragone è così ovunque?

Siamo stati alle porte della Cina, in quel territorio meraviglioso e accidentato di Myanmar (Birmania) abitato da minoranze etniche in perenne guerra con il governo centrale birmano, e ci sentiamo di azzardare una risposta: se la Cina applica una medesima filosofia utilitaristica ovunque, sfumature ed esiti appaiono diversi a seconda della distanza del Paese dai propri confini. Detta altrimenti: più il Paese dove la Cina investe è vicino ai suoi confini e la situazione interna di quel luogo è in grado di destabilizzarla, più Pechino articola il proprio modello economico win-win con considerazioni anche politiche.

Non è questa la sede per affrontare il tema delle relazioni sino-birmane. Sintetizzando all’estremo, si può dire che quello che fino ai primi anni Duemila era un “rough State” (secondo definizione washingtoniana) satellite di Pechino, si è da allora gradualmente sottratto all’eccessiva dipendenza dall’ingombrante vicino, giocando spregiudicatamente su almeno tre tavoli: le opportunità offerte dal “pivot to Asia” di Obama e la vicinanza (anche “morale”, come nel caso di Aung San Suu Kyi) con l’India, si sono aggiunti al tradizionale legame con la Cina.
Il momento simbolo di questo cambiamento di strategia è il settembre 2011, quando il megaprogetto da 3,6 miliardi della diga di Myitsone viene annullato dal governo di Naypyidaw. La diga avrebbe dovuto rifornire di energia la Cina e sommergere ettari di foresta, la scelta di cancellarla scaturisce dal malcontento popolare e dalle discrete pressioni dell’ambasciata Usa di Yangon.

Myitsone è nello Stato Kachin, dove pochi mesi prima dell’annullamento del progetto è riesploso il conflitto etnico tra truppe governative e Kia (Kachin Independent Army): per la precisione il 9 giugno 2011.
Come è ricominciata la guerra? Attorno a un’altra diga: le truppe di Naypyidaw hanno infatti attaccato i Kachin a est di Bhamo, sul fiume Taping, proprio presso l’impianto idroelettrico di Ta-pein. Oggi, la lingua di terra ancora controllata dal Kia è una specie di “striscia di Gaza” nella giungla, stretta tra la linea del fronte e la Cina.
In quell’area, Pechino sta compiendo sottili equilibrismi per non scontentare nessun partner: i Kachin, un milione dei quali vive già sul lato cinese del confine, e i birmani, che altrimenti finiscono in braccia indo-americane. Una sottile alchimia, dato che i due partner sono in guerra tra loro.

Dunque, da una parte c’è l’esercito birmano che attacca, dall’altra quello Kachin che si difende. La retrovia di quest’ultimo è lo Yunnan, Cina, che rifornisce di tutto la popolazione locale (tra cui circa 100mila profughi) senza per questo rompere con Naypyidaw.
Laiza, la capitale del Kio (Kachin Independent Organization, di fatto il governo della minoranza etnica) è una cittadina dove si vedono i canali di Cctv, si telefona con la rete cinese, in cui una enorme piantagione di banane (che dà lavoro a molti abitanti del locale campo profughi) è di proprietà cinese e si comprano sigarette Zhongnanhai, nonché cioccolato, giocattoli, ma anche frutta e qualsiasi bene made in China.
Tipico delle terre di nessuno e di frontiera, si dirà. Ma c’è altro.

A fine febbraio, per la prima volta dall’inizio del conflitto, la Croce Rossa cinese ha inviato sei camion di aiuti umanitari per i rifugiati dei campi profughi: sia quelli in territorio Kio, sia quelli in territorio birmano.
La versione ufficiale cinese è la seguente (Xinhua):
“Aiuti umanitari della Croce Rossa della Cina, del valore di 5 milioni di yuan (820 mila dollari), sono arrivati venerdì nello Stato Kachin, nel nord di Myanmar. Il carico, che comprende riso, olio per cucinare, sale e trapunte, […] sarà distribuito a 10mila famiglie sfollate. Sun Shuopeng, responsabile del progetto per la Croce Rossa della Cina, ha detto che questa è la prima volta che l’organizzazione spedisce aiuti nei Paesi confinanti coinvolti in conflitti. Labang Dwibisa, funzionario dello Stato Kachin, ha ringraziato venerdì la Croce Rossa auspicando una maggiore cooperazione nel lavoro umanitario”. Un bel colpo al cerchio e uno alla botte.

Tra i grandi problemi di quest’area c’è la droga. Siamo in una propaggine del Triangolo d’Oro e il cinquanta per cento della popolazione si fa di eroina (una dose costa 5 yuan) o di metanfetamine; un dato che non possiamo verificare ma del tutto coerente con rapporti Unodc (l’agenzia Onu che si occupa del problema).
Il maggiore Hpandan Gam Ba, 47 anni, comanda il campo di riabilitazione di Laiza, dove sia i tossicodipendenti sia gli spacciatori sono tenuti in uno stato di semi-detenzione che dura per un minimo di sei mesi. Mostra una pillolina bianca di “Cod”, cioè difenossilato, un oppiaceo sintetico che di solito si usa per il trattamento della diarrea. Sulla boccetta c’è scritto di non superare le 5 pillole al giorno; al rehab sparano invece al tossico una dose da cavallo di venti pillole il primo giorno per poi scalare in quelli successivi finché, dopo 15 giorni, il “paziente” non è disintossicato e quindi pronto per le attività di gruppo: lettura della Bibbia e lavoro manuale. Il “Cod” è un prodotto cinese e al di là del confine, dove le autorità del Kia fanno gli acquisti, si trova tranquillamente in farmacia. Ma, almeno in gran parte, sono cinesi anche gli spacciatori che, sempre al di là del confine, vendono droga ai giovani Kachin. È prodotta nello Stato Shan (quello che confina a sud) e nello stesso stato Kachin, rimbalza nello Yunnan e poi torna indietro.
La Cina è sia il male sia il rimedio al male, basta pagare.

C’è una guerra, quindi ci sono le armi. Da dove arrivano? Tutti i militari dicono che esiste una fantomatica fabbrica Kachin (non ci è concesso visitarla), anche perché la Cina “ha smesso di farle arrivare”. Tuttavia, qui è pieno di armi cinesi, soprattutto quelle pesanti, che vanno al di là di quei fucili d’assalto M23 (copia del cinese M81) presumibilmente prodotti in proprio: mitragliatrici M18 e mortai. Il giornalista svedese Bertil Lintner, forse il maggiore esperto di conflitti birmani, nel maggio 2013 scriveva così su Asia Times: “Trafficanti di armi cinesi hanno rifornito United Wa State Army (UWSA), una milizia che opera lungo il confine sino-birmano, non solo con fucili d’assalto, mitragliatrici , lanciarazzi e sistemi di difesa antiaerea portatili HN-5, o MANPADS, ma anche con cannoni PTL – 02 6×6 "tank destroyers" e un altro veicolo da combattimento corazzato identificato come il 4×4 cinese ZFB-05S. Ora, Jane’s Defence Weekly riferisce nel suo numero del 29 aprile che la Cina ha rifornito il UWSA con diversi elicotteri Mi-17 da medio-trasporto, armati di missili aria-aria TY-90. […] La fornitura di una gamma di nuove armi – missili terra-aria, veicoli blindati e ora elicotteri – sembra effettivamente che stia trasformando la UWSA in un’estensione transfrontaliera dell’Esercito Popolare di Liberazione”.
Sono stati gli stessi soldati Kachin a mostrarci una mitragliatrice M18 sulla linea del fronte, dicendo che l’hanno compratadagli Wa, l’esercito meglio armato tra quelli fuori dal controllo del governo birmano.

Ospedale militare di Laiza. “Harry”, 30 anni, va tutti i giorni a camminare con la sua gamba finta su per le montagne. Da civile, lavorava in una miniera d’oro, è stato ferito dal proiettile di un mortaio. Ma i soldati Kachin saltano spesso su mine antiuomo che loro stesso hanno collocato nella foresta. Le protesi sono prodotte dalla Yunnan Jiazhi, una joint venture sino-tedesca: la gamba intera costa 10mila Rmb, solo la parte sotto il ginocchio, 8mila. Il dottore si presenta come John, ha 25 anni e ha studiato in Cina, a Baoshan, nello Yunnan occidentale, giusto al di là del confine. Opera, fa le amputazioni aiutato solo dalle infermiere. Se le ferite sono più gravi, per esempio quelle all’addome o agli organi interni, i soldati vengono spediti a operarsi in Cina, a seguito di un accordo tra il Kio e le autorità del Dragone.
La Cina è sia il male sia il rimedio al male, basta pagare.

Intanto, mentre Kachin e birmani si fanno la guerra, camion con targa dello Yunnan continuano a portare via legname pregiato, pochi metri dietro la linea del fronte. È palissandro, quello con cui si fanno i pesantissimi mobili cinesi. Sono almeno una decina i veicoli che si incontrano andando dalla prima linea verso Maijayang, l’altra cittadina che resta in mani Kachin: ci sono quelli carichi di legname che vanno a est e quelli vuoti che ti vengono incontro, verso ovest.
Il 17 febbraio è uscita su Irrawaddy una interessante intervista al generale Gun Maw, vicecapo di stato maggiore del Kia. Il generale dice che i birmani giustificano i propri attacchi agli avamposti Kachin dicendo che il Kia non fa nulla contro i “disboscatori illegali”.
Ma il fatto è che, senza la Cina, i Kachin non possono stare. Troppo vicina, troppo importante. E la guerra, per certi versi, sembra un contenzioso su chi deve vendere alla Cina. E cosa.

La strategia Win-Win alle porte di casa appare questo: ricerca del profitto e tentativo di legare a sé tutte le parti in causa. Utilitarismo e cerchiobottismo. Non è detto che non funzioni.

Questo articolo è un’anteprima del prossimo reportage dallo Stato Kachin di Gabriele Battaglia e del fotografo Nicola Longobardi. State connessi.