La Cina non riesce a fare il grande salto dell’innovazione. Perché? Lo chiediamo a Bill Dodson, autore di China Fast Forward, secondo cui il Dragone deve superare i limiti che si è creato da solo. Bill Dodson è un consulente strategico di grandi imprese che fanno affari in Cina, nonché analista economico su fatti cinesi per diverse pubblicazioni, giornalistiche e accademiche. Scrive ciò che vede e sperimenta giorno per giorno. Di recente ha pubblicato China Fast Forward, un libro sull’innovazione oltre Muraglia; o meglio, sui problemi che la “disruptive innovation”, quella in grado di creare nuovi mercati dal nulla, incontra nel particolare sistema economico, politico, sociale del Celeste impero.
Per trasformarsi in economia evoluta, in grado di creare prodotti ad alto valore aggiunto, la Cina spende ormai in ricerca e sviluppo poco meno degli Stati Uniti. Ma stenta a compiere la grande transizione dal Made in China al Designed in China. Perché?
L’abbiamo chiesto allo stesso Dodson, che ci restituisce un’immagine realistica e non scontata del Dragone. Con qualche punta di pessimismo.
La Cina sostiene di investire molto in ricerca e sviluppo, ma è ancora indietro in termini di innovazione: qual è il problema?
I brevetti depositati rivelano che gran parte dell’innovazione cinese è innovazione “utile”, che consiste cioè in aggiustamenti o modifiche di invenzioni già esistenti. Del tutto coerentemente, gli investimenti in ricerca&sviluppo di tutti i settori dell’economia cinese puntano così a ridurre i costi e la complessità delle tecnologie già esistenti, rimanipolate. In tal modo si mira a risolvere alcuni problemi di prezzo sui mercati locali e l’incapacità di applicare quelle tecnologie in maniera sofisticata. Inoltre si riesce così a esportare prodotti “cinesi” in Paesi che non hanno bisogno di un alto livello di complessità tecnologica per soddisfare le richieste della propria società; o che, molto semplicemente, non possono permettersi l’alto prezzo delle tecnologie occidentali.
Nel suo libro, lei sostiene che l’innovazione è più una questione di incubazione che di intelligenza. Può spiegare meglio questo concetto?
Alla radice dell’innovazione c’è un ambiente in cui creatività, capacità d’adattamento, esplorazione, condivisione e scoperte casuali possono prosperare. Necessità e adattabilità sono sicuramente stimoli per l’ingegno, modi per soddisfare l’utilità del momento. Tuttavia, le innovazioni di rottura per le industrie e anche per la società nascono da uno scontro di idee e dall’aggregazione di intuizioni provenienti da fonti disparate. Essere intelligente in un ambiente arido o fortemente controllato non è sufficiente per far sbocciare le intuizioni, i dibattiti e anche gli errori che la scoperta richiede.
La Cina punta sull’”innovazione domestica”. Ci può descrivere brevemente in che cosa consiste?
Il governo cinese sostiene una politica che definisce di “innovazione locale”. Consiste nell’adozione di tecnologie provenienti da altri Paesi – o di opere prodotte da imprese straniere in Cina – e di adattare le invenzioni all’applicazione locale, interna, per poi successivamente esportare gli adattamenti in altri Paesi come se fossero Inventati-in-Cina.
Lei dedica una riflessione anche al pensiero confuciano. Qual è il suo ruolo in termini di innovazione?
Il pensiero confuciano si occupa del corretto comportamento degli esseri umani in una società. Riflette il passato imperiale in cui è stato concepito ed è costantemente riemerso in tutta la storia cinese per ristabilire e mantenere l’ordine in un impero tentacolare. Regola la posizione e il ruolo che ogni individuo deve rispettare per conservare una gerarchia, in mancanza della quale la società sprofonderà nel caos (secondo le previsioni confuciane).
Anche se il confucianesimo non impedisce l’innovazione, è molto efficace nel limitare il pensiero creativo e, soprattutto, il dissenso. In ultima analisi, l’innovazione ha a che fare con la sostituzione di concezioni preesistenti e con l’inaugurazione di nuove modalità di lavoro, relazionali, che sfociano nella creazione di concetti nuovi e validi alla prova dei fatti.
In Cina è sempre stato difficile dire all’imperatore che ha torto – che si tratti del governo, dell’insegnante o del genitore – dato che è lui a stabilire quale sia la verità e ogni disputa può portare all’isolamento e, a volte, addirittura alla morte.
Però esistono altre società confuciane, come il Giappone e la Corea, dove esiste un elevato tasso di innovazione. Quali sono le differenze con la Cina?
Io credo che, per quanto riguarda l’innovazione commerciale, il Partito Comunista Cinese (Pcc) abbia un grado più elevato di interessi in conflitto tra loro rispetto ai governi degli altri due Paesi. Il Pcc è sia investitore sia sponsor e consumatore; crea e promuove regole che poi impone e sulle quali si pronuncia in giudizio; prescrive il modo, il ritmo e i criteri di “successo” che soddisfino la propria definizione di innovazione. Questo approccio è efficace nel produrre innovazione che dia al Paese “faccia” [mianzi, prestigio, dignità, onore, rispetto, status, ndr] – con programmi in stile “Progetto Manhattan” [il gigantesco programma di ricerca, finanziato dal governo degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, che portò alla realizzazione delle prime bombe atomiche, ndr]; tuttavia, non ha alcun risultato tutte quelle volte che l’invenzione o la scoperta, o la loro messa in pratica, rischino di sconvolgere gli interessi politici e commerciali del Partito.
Lei è ottimista? Voglio dire: pensa che la Cina saprà trovare le soluzioni innovative ai suoi enormi problemi prima che il “soffitto duro” diventi troppo duro? Mi riferisco qui al concetto di “hard ceiling” che lei utilizza nel suo libro per descrivere una società che non riesce più a gestire il livello di complessità che si è venuto a creare nella società stessa: una Cina che picchia la testa contro i limiti che lei stessa ha creato.
C’è una sottile possibilità che la leadership cinese riesca a mobilitare la popolazione in direzione della costruzione di una società moderna e sostenibile, nello stesso modo in cui ha guidato la società nel Grande Balzo in avanti, nella Rivoluzione Culturale e nella liberalizzazione dell’economia degli anni Ottanta. Tuttavia, ci sono così tanti interessi politici e commerciali costituiti, intenzionati a mantenere lo status quo, che la probabilità di avere un “Grande balzo in avanti sostenibile” è relativamente bassa.
L’innovazione è anche una questione di investimenti, sia in termini economici sia culturali: su quali priorità la Cina dovrebbe concentrarsi e investire?
L’innovazione ruota attorno al problema di creare un ambiente in linea con quello che ho descritto sopra. In Cina si verificano isolati esempi di riforme scolastiche e sociali, ma sono pochi e rari: i germogli di innovazione vengono calpestati con estrema puntualità se appaiono troppo in contrasto con l’ortodossia corrente.
Le scuole private per i figli della borghesia promuovono la creatività e il dibattito più dei programmi scolastici pubblici standardizzati; e ci sono organizzazioni informali che sembrano incoraggiare i cittadini all’aiuto reciproco senza fare affidamento sui canali ufficiali. Si tratta di vere e proprie rivoluzioni nella storia sociale cinese: autentiche innovazioni, anche se oggi noi occidentali li considereremmo fatti scontati e di buon senso.
Va però detto che i tentativi di innovazione centralizzata finiscono inevitabilmente per bloccare quel tipo di evoluzione di cui ha bisogno il Paese per coltivare il genio creativo.
La parola chiave ufficiale per il futuro sviluppo della Cina è probabilmente “Chengzhenhua”, cioè “urbanizzazione sostenibile” che ruota attorno a città di secondo, terzo livello: che cosa significa in termini di innovazione?
Chengzhenhua dovrebbe significare lo sviluppo e la messa in pratica di tecnologie e stili di vita che facciano un uso migliore delle risorse – energia, acqua, materie prime, spazio fisico – rispetto alla visione del mondo legata alla Rivoluzione Industriale. I tentativi fatti finora sono collassati sotto il peso dei conflitti di interesse dei governi locali e della corruzione: per esempio il progetto di Dongtan, sull’isola di Chongming, a nord di Shanghai. Le città europee sono molto più vicine a realizzare gli obiettivi di sostenibilità di quanto farà mai la Cina.
[Dongtan è una città a emissioni zero progettata su un’isola alla foce dello Yangtze, che avrebbe dovuto essere inaugurata nel 2010 e che è pianificata per ospitare 500mila abitanti entro il 2050 (www.dongtan.cn). Tuttavia, i lavori non sono ancora cominciati e l’inaugurazione è stata rimandata a data da destinarsi; di Dongtan, a oggi, non si sente più parlare, ndr].