Un po’ di numeri sulla diseguaglianza cinese. Il modello denghiano delle “riforme e aperture” ha portato la maggioranza fuori dalla povertà, ma oggi ha esaurito il suo slancio. Bisogna correre meno e redistribuire meglio. La Banca Mondiale ha di recente pubblicato un rapporto in cui afferma che l’Asia orientale ha vinto la battaglia contro la povertà. A trainare questa resurrezione regionale è naturalmente la Cina, che negli ultimi trent’anni ha ridotto la percentuale di persone sotto la soglia di povertà dall’84 al 12 per cento. Ma anche l’india e altri Paesi del Sudest Asiatico avrebbero fatto passi in avanti.
A raffreddare gli entusiasmi, altri studi dimostrerebbero però che la crescita a doppia cifra espressa dal “modello cinese” (se non asiatico), quantitativa, lascia comunque la parte più debole della popolazione in condizioni di estrema povertà. E che i processi di globalizzazione acuiscono il fenomeno, invece di ridurlo.
Le interpretazioni non sono necessariamente inconciliabili. È vero: le “riforme e aperture” iniziate da Deng Xiaoping hanno realizzato un mezzo miracolo (o forse uno intero) nel giro di trent’anni. Ma è altrettanto vero che oggi assomigliano a un motore che batte in testa: rischiano di grippare. Per questo motivo, la leadership di Pechino sta ripensando il modello in direzione, forse, di un keynesismo con caratteristiche cinesi.
Secondo la nota The State of the Poor, rilasciata dalla World Bank il 17 aprile, “nel 1981, più della metà dei cittadini dei Paesi in via di sviluppo viveva con meno di 1,25 dollari al giorno (il limite al di sotto del quale si parla di povertà estrema). Questa percentuale è diminuita drasticamente al 21 per cento nel 2010”.
In Cina, addirittura, quasi 700 milioni di persone sono state portate al di sopra della soglia, in un processo che ha avuto un’autentica accelerazione nel corso dei trent’anni presi in esame. Se infatti dal 1981 al 1990 i poveri erano scesi dall’84 al 60 per cento (da 835 a 683 milioni) e nel decennio successivo – fino al 1999 – al 36 per cento (446 milioni), nel 2010 si è toccata quota 12 per cento (156 milioni): circa un terzo rispetto a dieci anni prima.
La “politica della porta aperta” introdotta da Deng nel 1978 ha fatto sì che il reddito pro capite aumentasse da una media di 800 dollari l’anno nel 1990 a 2.340 dollari nel 2000, fino a 8.340 dollari nel 2011. I cinesi si sono quindi in media “arricchiti” dieci volte nel giro di vent’anni.
Ciò nonostante, molti di loro considerano l’amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao un “decennio perduto”. Perché? Aspettative in crescita al pari dei redditi? Il popolo è stato troppo “viziato”?
Il punto è che è aumentata la diseguaglianza.
Altri numeri ci dicono infatti che la disparità di reddito è cresciuta drammaticamente. Nel 1988, il 10 per cento più ricco della popolazione guadagnava sette volte di più del 10 per cento più povero; nel 2012 il primo segmento guadagna 23 volte di più rispetto al secondo: sbatti in faccia al povero-un po’ meno povero, il Suv, la villa, la concubina ingioiellata del ricco-geometricamente sempre più ricco, e avrai un problema. In Cina la cosa stride di più, perché si è partiti da un’epoca in cui tutti avevano lo stesso vestito e si è arrivati a un indice Gini – che assegna 0 punti a società totalmente egualitarie e 100 a quelle totalmente diseguali – più alto di quello degli Usa. Il coefficiente, che per la Cina si basa su dati dell’Istituto Nazionale di statistica, è ormai stabilmente al di sopra del livello considerato accettabile, compreso tra 30 e 35 (l’indice medio per i paesi OCSE è 31). Il direttore dell’Istituto, Ma Jiantang, ha recentemente dichiarato che nel 2012 è stato 47, un leggero miglioramento rispetto al 49 del 2008.
Ma studi indipendenti lasciano intendere che i dati ufficiali sono imprecisi, soprattutto perché si basano sui redditi dichiarati e – si dice – gli intervistati più ricchi tendono a sottostimare il proprio. Ricerche che si fondano invece su una conoscenza già acquisita del campione in esame e che tendono a fare emergere anche le entrate nascoste, restituiscono risultati abbastanza impressionanti: il reddito medio pro capite dei residenti urbani sarebbe infatti doppio rispetto ai dati ufficiali, e la fetta più abbiente di popolazione sarebbe tre volte più ricca rispetto a quanto dichiarato. Se si prendono per buoni questi dati, l’indice Gini potrebbe essere superiore a 50, un livello di disuguaglianza considerato destabilizzante a livello sociale e quindi pericoloso.
Ogni Paese in via di sviluppo sperimenta fasi di forte diseguaglianza, dicono gli economisti, e lo stesso Deng Xiaoping avvertiva: “Qualcuno diventerà ricco prima di altri”. Il problema però è che quegli “altri” cominciano a non poterne più di aspettare e il Partito si è giocato tutte le carte di legittimità sul benessere diffuso, cioè redistribuito. Quindi, mentre acuisce la campagna contro i comportamenti “eccessivi” degli arricchiti (“volate basso, che diamine!”), Pechino pensa a riforme più strutturali.
La diseguaglianza cinese si è ampliata in tutte le dimensioni. C’è crescente disparità tra individui all’interno delle aree urbane e un parallelo divario tra redditi medi urbani e rurali. Il che significa che aumenta anche la distanza tra diverse regioni del Paese. In altre parole, un manager di Shanghai e un contadino del Guizhou sono quasi due specie antropologiche diverse.
Va detto che il fenomeno di una Cina geograficamente diseguale attraversa tutta la storia della Repubblica Popolare, contrariamente al luogo comune secondo cui i cinesi di trent’anni fa fossero fatti con lo stampino. Uno studio del 2011, per esempio, rivela che i picchi di disuguaglianza interregionali si sono verificati durante la Grande Carestia (1960), alla fine della Rivoluzione Culturale (1975-1976) e negli anni 2000. Secondo gli analisti, sono stati determinati da tre variabili: prima lo sviluppo dell’industria pesante, poi il decentramento economico (cioè il maggiore potere assegnato alle province) e infine la globalizzazione, con l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (2001).
Ed eccoci dunque alla globalizzazione. Si pensava che riducesse la diseguaglianza nei Paesi sottosviluppati (grazie alla possibilità di movimento di persone e di cose) e la acuisse in quelli sviluppati (per via della delocalizzazione produttiva). Invece l’evidenza empirica – non i “black-bloc” – dice che la aumenta ovunque. Negli ultimi decenni c’è stata infatti una convergenza tra livelli di diseguaglianza in Paesi che partivano da modelli completamente diversi, come dimostra il fatto che l’indice Gini staziona tra 40 e 50 sia negli Usa sia in Russia sia in Cina.
Il problema è che la globalizzazione è avvenuta più come movimento di capitali, merci e servizi che di esseri umani, non compiendo quindi la stessa funzione riequilibratrice che svolse alla fine del diciannovesimo secolo l’emigrazione europea (e italiana) verso l’America.
A questo punto, quindi, la Banca Mondiale celebra il modello basato su aperture di mercato e globalizzazione proprio quando Pechino deve inventarsi qualcosa di nuovo. Cosa?
Xi Jinping e Li Keqiang ripetono un giorno sì e l’altro pure che la crescita cinese sarà più lenta e più qualitativa. Cioè più sostenibile. Gli analisti temono che questo sia il segnale di un prossimo “hard lending” della Cina, ma l’impressione è che invece sia la condizione necessaria alla grande transizione. Si tratta soprattutto di spendere meglio i soldi che il governo cinese getta di continuo in investimenti speculativi e improduttivi. Keynes sì, ma avveduto.
La chiave di volta, secondo Pechino, è l’urbanizzazione sostenibile che dovrebbe trasformare i contadini in residenti di città di media grandezza con pieni diritti di residenza e, quindi, servizi sanitari, livello di istruzione e standard abitativi adeguati.
Il sogno è quello di una Cina costellata di molte centri “a misura d’uomo” (non più megalopoli fuori controllo) dove un nuovo ceto medio stimoli il mercato interno attraverso i propri consumi. Le campagne verrebbero quindi lasciate ad aziende agricole moderne e più produttive, capaci quindi di nutrire la crescente popolazione urbana.
In contemporanea, si prova a ridurre il gap tra diverse aree del Paese investendo nelle regioni occidentali, che rappresentano il 70 per cento del territorio con però solo il 28 per cento della popolazione; un processo, questo, già in corso da anni. Intanto si lavora anche sul sistema sanitario e su quello pensionistico. Resta ancora da vedere come la leadership cinese intenda procedere con il sistema educativo, a oggi inefficiente dal punto di vista dell’innovazione e invece efficientissimo come riproduttore di diseguaglianza.
Per ottenere le risorse necessarie alla grande trasformazione, Pechino pensa tra le altre cose di adottare una politica fiscale più severa verso le grandi imprese di Stato e al tempo stesso di attirare capitali stranieri con la graduale apertura del proprio mercato finanziario. Questo significa determinare rotture negli interessi costituiti cercando però di evitare misure eccessivamente destabilizzanti, come sarebbe per esempio importare in Cina le stesse attività speculative che hanno rovinato l’Occidente.
Come si vede, il cammino del Dragone verso l’uguaglianza è una vera e propria Lunga Marcia, fatta di continui piccoli aggiustamenti che devono necessariamente essere sincronizzati.
È tenendo d’occhio questi piccoli-grandi cambiamenti che si può interpretare il futuro della Cina.