Dragonomics – La ricrescita cinese

In by Simone

I dati economici dell’estate ci descrivono una Cina in ripresa. Ma fu vera gloria? Il sospetto è che tutti i problemi strutturali restino irrisolti e una nuova contrazione del credito potrebbe essere nell’aria. In attesa che la "Likenomics" spicchi il volo. La Cina ricomincia a crescere, evviva. Anzi, forse no. Mah.
Tutti i dati parlano chiaro: manco fossero lavoratori esausti, la produzione industriale e il commercio hanno recuperato le forze nei mesi estivi. Da luglio ad agosto, la prima è incrementata dal 9,7 al 10,4 per cento anno su anno, mentre le vendite al dettaglio sono passate dal 13,2 al 13,4.
Se poi è vero, come si dice, che il premier Li Keqiang ha una predilizione per i dati che riguardano la produzione di energia – quella necessaria ad alimentare il gigantesco sistema sanguigno del Dragone – ebbene, in questi giorni avrebbe ragione di esultare: l’output di energia elettrica ha registrato un record assoluto e il mese di agosto è stato il più “pompato” della storia cinese, con 498,7 miliardi di chilowattora, un aumento del 13 per cento rispetto all’anno precedente. La Cina ha di nuovo una tigre nel motore e, a questo punto, la maggior parte degli analisti è convinta che il target del 7,5 per cento di crescita nel 2013 sia a portata di mano.

Ma è meglio stare calmi. Restano infatti molti dubbi sulla qualità di questo rimbalzo verso l’alto. In pratica, se i dati ci dicono per esempio che il mercato immobiliare è rimasto più o meno fermo negli ultimi mesi – e che quindi la crescita attuale non sarebbe a rischio “bolla” – c’è un sostanziale consenso nel riconoscere che a tirare la ripresa siano state soprattutto le infrastrutture, di cui la Cina ha bisogno ma che non rappresentano certo quel salto di qualità che porterebbe il Dragone nel novero delle economie evolute. Ancora una volta, potremmo trovarci di fronte a una crescita pompata dagli investimenti e il rischio di "bad loans", i crediti che non restituiscono profitti, è sempre dietro l’angolo.

È poi un indicatore positivo a recare, paradossalmente, un messaggio inquietante. Il gettito fiscale del governo di Pechino e di quelli locali è aumentato complessivamente negli ultimi tre mesi del 9,2 per cento. Tuttavia, le entrate delle amministrazioni locali crescono più velocemente sul lungo periodo: tra gennaio e agosto, il gettito fiscale del governo centrale è cresciuto del 3,5 per cento (ben al di sotto del 7 previsto), mentre quello dei governi locali è aumentato del 12,8.
È lo stesso ministero delle Finanze ad ammettere che all’origine della crescita ci sarebbe la vendita di terreni, cioè la solita “land policy” che non fa che procrastinare i problemi strutturali dell’economia e della società cinesi: bolla immobiliare, profitti immediati ma non sul lungo periodo e sradicamento dei contadini.

Dalla crisi globale del 2008, ricordiamolo, il sistema finanziario cinese, guidato politicamente dall’alto, ha inondato l’economia di liquidità, provocando bolle speculative ed eccesso di capacità che potenzialmente, preludono a un futuro buco nero finanziario a causa del mancato recupero dei crediti. In particolare, si è assistito all’enorme indebitamento dei governi locali in tutto il Paese e molti oggi non sembrano in grado di rimborsare i propri debiti.
In definitiva, le entrate fiscali di oggi potrebbero prefigurare la voragine di domani.

Se poi per caso – come alcuni analisti-Cassandre temono – nei prossimi giorni si verificherà un altro credit crunch simile a quello che si è abbattuto sul prestito interbancario a giugno, avremo la riprova che l’economia cinese è tutto fuorché in salute. La contrazione della liquidità disponibile potrebbe verificarsi in tal caso per la prevista corsa al prelievo bancario da parte dei cinesi desiderosi di festeggiare come si deve l’imminente festa di mezzo autunno (18-21 settembre) e poi quella nazionale di inizio ottobre, che dura un’intera settimana. Celebrazioni nazionali che avvengono in concomitanza con la fine del trimestre, quando le banche devono soddisfare i requisiti minimi di capitale (il rapporto tra depositi e prestiti) e quindi stringere i cordoni della borsa.
Se tale contrazione si verificherà, avremo la conferma di un “eterno ritorno” dei problemi strutturali dell’economia cinese.
Niente di tragicamente preoccupante, per carità. Al limite, nessuno si spaventi se nei prossimi giorni il bancomat della propria banca cinese di fiducia risulterà stranamente privo di contanti (amici expat sul suolo cinese, tenete qualche mazzetta sotto il materasso). La Cina continua comunque ad avere le risorse necessarie per fare fronte al problema e l’ennesima iniezione di valuta da parte di Pechino potrebbe rifocillare il sistema creditizio. Ma il problema resta.

Per risolverlo, il premier Li sembra puntare sul progressivo completamente della lunga marcia dell’economia cinese verso il mercato: riduzione del settore pubblico, liberalizzazione dei tassi d’interesse e, quindi, piena convertibilità dello yuan/renminbi. Tutte misure che dovrebbero favorire l’afflusso di capitali. Non si sa quando, non si sa come, ma gran parte del mondo finanziario dà ormai per assodate queste svolte epocali come obiettivo principale del premier durante il suo mandato. Insieme, si capisce, a quello di ammodernare l’economia cinese nel segno dell’innovazione.