La commissione nazionale per lo Sviluppo e le Riforme ha diffuso le linee guida per la riforma dell’economia cinese: più welfare, ma meno Stato e più mercato, con l’urbanizzazione sullo sfondo. Un progetto titanico, così come i problemi che deve affrontare. Promuovere lo sviluppo industriale, i servizi pubblici e la creazione di posti di lavoro nelle città medio-piccole; riformare il sistema dell’hukou (che vincola diritti e servizi al luogo di residenza); migliorare la qualità di vita della gente, fornendo per esempio un sistema unico di assicurazione sanitaria che tutelerà gradualmente tutti i cinesi; estendere la tassa sulla proprietà immobiliare ad altre città, oltre Shanghai e Chongqing, per frenare la bolla immobiliare, i prezzi sempre più insostenibili, e fornire nuove risorse economiche allo Stato; introdurre dazi sulle attività inquinanti ed energivore e una tassa sulle risorse naturali; adottare gradualmente misure che consentano alle forze di mercato di determinare i tassi di interesse bancari e introdurre politiche per “promuovere l’effettiva entrata di capitali privati nella finanza, nell’energia, nelle ferrovie, nelle telecomunicazioni e in altri settori”.
Sono queste le linee guida per la grande riforma dell’economia cinese diffuse venerdì scorso dalla commissione nazionale per lo Sviluppo e le Riforme. Si propongono di rilanciare lo sviluppo e compiere la grande transizione della Cina da economia in via di sviluppo a economia matura.
“Linee guida” non significa “dettagli” e sono le stesse fonti vicino al governo di Pechino a specificare che c’è ancora tempo per delineare le concrete misure che nello specifico trasformeranno in fatti le intenzioni.
Tuttavia la direzione appare chiara e, a seconda di interessi in gioco e predilizioni personali, c’è chi mette in risalto gli aspetti di welfare contenuti nel pacchetto (i media cinesi) e chi invece le riforme di mercato che possano aprire ulteriormente la Cina agli investimenti (i media stranieri).
La sintesi tra i due aspetti si può così formulare: di fronte ai primi segnali concreti di rallentamento della propria economia, segno del probabile esaurimento di un modello da Paese in via di sviluppo, la Cina vuole diventare economia evoluta a tutti gli effetti; per fare questo, deve trovare nuove risorse finanziarie e rendere più efficienti gli investimenti, ridurre quindi il ruolo dello Stato e aprire sempre più ai capitali privati.
Una maggiore efficienza degli investimenti, in particolare, appare improcrastinabile. In Cina si sprecano troppi soldi. È di pochi giorni fa la notizia che i bad loans, cioè i crediti che non si traducono in profitti e non tornano indietro, sono saliti a 526,5 miliardi di yuan (86 miliardi dollari) nei primi tre mesi del 2013, ma la rivista economica Caijing sostiene che la realtà è ancora più inquietante di quanto rivelino i dati ufficiali. Una grande quantità di asset tossici sarebbero infatti stati nascosti dalle banche di Stato, che cercano così di mascherare i propri conti ai referenti politici. Nel frattempo, i governi locali e le grandi imprese si starebbero sempre più rivolgendo al cosiddetto “credito ombra” (canali di finanziamento privati e non istituzionali) per ottenere nuovi finanziamenti o per rimborsare o rinnovare prestiti contratti precedentemente, così i rischi di insolvenza si estendono al di fuori del settore bancario. Si parla di un totale dei crediti ombra che aumenta clamorosamente più del Pil nazionale: 39 per cento contro il 7,7.
Nulla meglio di questa storia spiega perché la leadership cinese stia tentando di scardinare il circolo vizioso costituito da eccessiva presenza dello Stato nell’economia, interessi particolari, speculazione e investimenti improduttivi.
Tra le aspettative generate dalle nuove linee guida presso gli analisti stranieri, c’è anche quella di un valore del Renminbi – la valuta cinese – non più determinato politicamente entro una ristretta fascia di oscillazione, ma lasciato libero di fluttuare secondo l’andamento dei mercati. La stessa Banca Centrale cinese ha rilasciato una dichiarazione di apertura in questo senso.
È improbabile tuttavia che si assista a rivoluzioni nel breve periodo: la Cina, già percorsa da fenomeni speculativi interni inquietanti, teme di attirare la speculazione finanziaria internazionale in casa propria e ha davanti gli occhi l’esempio negativo degli Usa e dell’Europa dell’ultimo quinquennio. È più probabile invece che si proceda sempre più sulla strada dell’ampliamento della fascia d’oscillazione. Va ricordato comunque che la moneta cinese si è costantemente rivalutata sul dollaro e sull’euro negli ultimi anni.
Sul piano sociale, appare fondamentale la riforma dell’hukou. Il sistema, introdotto nel 1958 nel quadro di una collettivizzazione che legava i diritti dei contadini alle proprie comuni popolari di appartenenza, oggi è un retaggio del passato che penalizza la forza lavoro invece di tutelarla. Le centinaia di milioni di mingong (migranti) che si spostano nelle città, non hanno alcun diritto proprio perché vincolati al proprio luogo di residenza. Il problema che si pone è: come dare più diritti evitando esodi di massa che svuotino le campagne e saturino ulteriormente le già ipertrofiche megalopoli? Le proposte più interessanti di riforma sembrano voler ampliare territorialmente l’hukou che, in un futuro prossimo, potrebbe non essere limitato al villaggio o alla contea di appartenenza, bensì a intere regioni o aree economiche omogenee; come l’immenso delta del fiume delle Perle, la cintura manifatturiera per eccellenza.
Le linee guida verranno meglio definite in un vero e proprio piano “entro l’anno”, ha detto Lian Qihua, che è il vicedirettore del dipartimento per le Riforme, aggiungendo che sarà presto organizzata anche una conferenza che meglio definisca il grande progetto di urbanizzazione del Paese.
L’urbanizzazione, appunto. Segno che anche e soprattutto per il grande obiettivo dei prossimi decenni si vogliano ormai evitare le “spese irrazionali” sono le voci circolate in questi giorni secondo cui il premier Li Keqiang avrebbe rispedito al mittente un piano per l’urbanizzazione futura, preparato dalla stessa commissione per lo Sviluppo e le Riforme.
Un funzionario anonimo avrebbe smentito, dicendo che è impossibile bocciare qualcosa “che non esiste ancora”, tuttavia l’impressione diffusa è che il governo di Pechino voglia mettere bene in chiaro che la grande “Chengzhenhua” (l’urbanizzazione incentrata sulle città medio-piccole) non deve e non può essere l’ennesima occasione per colate di cemento, mazzette e arricchimenti illeciti.
Non è quindi un caso che la grande transizione economica sia accompagnata, proprio in questi mesi, da una diffusa campagna anticorruzione e “contro gli eccessi”.
La grande trasformazione non è solo un modello economico, bensì anche la rimozione di interessi costituiti e sacche di potere. Questo, forse, è il compito più difficile.