La Cina apre i rubinetti e lascia fluire l’acqua del grande fiume verso i cinque paesi a valle, afflitti dalla siccità. A Pechino si parla di «gesto generoso», mentre un nuovo meccanismo di cooperazione viene lanciato con grandi squilli di tromba. La logica che lo presiede è, tanto per cambiare, quella dello «sviluppo». La chiamano «water diplomacy», diplomazia dell’acqua. Fatto sta che dalla settimana scorsa, la Cina sta rilasciando acqua da una diga sul fiume Lancang – che poi è il nome cinese del famoso Mekong – per aiutare i paesi a valle colpiti dalla siccità. L’acqua fluirà dal 15 marzo fino al 10 aprile dalla diga di Jinghong, in territorio cinese, e ne beneficeranno Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam: tutti quelli che stanno a valle.
In occasione dell’annuncio, Lu Kang, il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha detto: «Le persone che vivono lungo il Lancang-Mekong sono nutriti dallo stesso fiume. E va da sé che gli amici devono aiutarsi a vicenda quando c’è bisogno di aiuto». I media si sono allineati alle autorità mostrando come questa decisione sia un gesto di grande generosità da parte di Pechino e auspicando che apra una nuova stagione nei rapporti non sempre sereni tra i Paesi percorsi dal grande fiume. La tesi è che il problema – quello della siccità nel Sudest Asiatico – non sia dovuto alla mano dell’uomo, bensì a cause naturali: nella fattispecie a «El Niño», quell’ammasso caldo-umido che si forma sul Pacifico e che condiziona il clima di tutto il pianeta. Se in alcuni luoghi provoca siccità, in altri causa inondazioni. Quello di quest’anno sarebbe il peggiore dalla fine degli anni Novanta e, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sessanta milioni di persone sparse per il mondo saranno a rischio per patologie varie (dalla malnutrizione alle punture di insetti).
In realtà, sono anche le dighe costruite lungo il corso del fiume a provocare siccità o allagamenti a seconda che si aprano o si chiudano i rubinetti. Alterano l’ecosistema. La Cina non è l’unica a costruirle, ma è la nazione che sta a monte, che ne ha di più e che spesso le vende prêt–à–porter anche agli altri Paesi della penisola indocinese, ben felici di intercettare investimenti e tecnologie che arrivano da Pechino. Perché si sa che nessuno al mondo come l’ex Celeste Impero è capace oggi di fare infrastrutture e costruzioni.
Il Mekong nasce in Himalaya, nella provincia del Qinghai, e poi attraversa il Tibet e lo Yunnan prima di entrare nella penisola indocinese. La Cina ha costruito la sua prima diga in Yunnan nel 1994, per poi aggiungerne una seconda nel 2003. Ma il boom vero e proprio è cominciato dal 2009 con altre quattro dighe costruite in territorio cinese. Pechino si è sempre impegnata a lasciar fluire l’acqua in caso di siccità a valle ma detiene comunque il potere di aprire e chiudere il rubinetto, cosa che per altro vale anche per altri fiumi himalayani.
È proprio questo continuo aprire e chiudere che – a detta degli esperti – crea i problemi.
Attività come il turismo e la pesca ne sono fortemente danneggiate (pensate per esempio a quanto potrebbe essere divertente essere travolti da un’ondata di piena mentre in bermuda e camicia a fiori si percorre il fiume in traghetto).
Che la scelta di aprire il rubinetto non risolva ogni problema come d’incanto, lo rivela poi il fatto che all’indomani dell’annuncio cinese, la Thailandia ha comunque pensato bene di deviare acqua del Mekong verso il fiume Huai Lang, dopo avere per altro approvato un progetto di diversione idrica che andrà a regime nel giro di due anni e che «succhierà» 150 metri cubi d’acqua al secondo. Intanto, la giunta militare che governa a Bangkok ha anche deciso di bloccare alcuni affluenti del grande fiume. Il che ha fatto comprensibilmente imbufalire chi sta più a valle, cioè il Vietnam, che denuncia: è dal 1926 che il livello del Mekong non era così basso. Insomma, tutti attaccati alla stessa cannuccia.
L’attuale siccità arriva pochi mesi dopo il lancio del nuovo meccanismo di cooperazione sul Lancang-Mekong, un’organizzazione che include tutti i Paesi dell’area, mentre la Cina non era membro del consorzio precedente, la Mekong River Commission. La vecchia commissione non ha mai funzionato ed è semi-fallita perché i Paesi membri non sono mai riusciti a mettersi d’accordo. E poi, soprattutto, mancano i fondi. Il nuovo organismo di cooperazione è sovvenzionato soprattutto dalla Cina e in Cina – indovinate dove? A Jinghong – si è tenuta, lo scorso novembre, la riunione dei ministri degli Esteri che l’ha inaugurato ufficialmente.
Con un ordine del giorno ben nutrito – cooperazione economica, politica, culturale, ambientale – un nuovo summit si terrà mercoledì a Sanya, cinesissima isola tropicale nota per gli hotel, i consessi globali e i ricchi russi in vacanza. Insomma, la Cina promuove e finanzia la nuova organizzazione del Mekong, le dighe nell’area sono costruite dalla Cina, e il Paese che sta a monte del corso del fiume è la Cina. Vuoi vedere che le ragioni che si imporranno saranno soprattutto quelle della Cina?
Come in ogni vertice internazionale – non solo quelli sponsorizzati da Pechino – la priorità diventa la compatibilità tra diversi fattori, laddove quello economico è «primus inter pares». Così, si apprende dalle anticipazioni che oltre 40 progetti di varia natura saranno approvati nel summit di mercoledì. E se si avesse qualche dubbio sulla priorità «sviluppista» di questi progetti, ecco come il vice ministro degli Esteri cinese Liu Zhenmin si è riferito la settimana scorsa ai partner indocinesi: «All’interno dell’Asean [Association of Southeast Asian Nations, ndr], quei cinque Paesi sono in ritardo [economico], in particolare il Laos, la Cambogia e Myanmar. La cooperazione contribuirà a ridurre i divari di sviluppo e a promuovere la prosperità nella sub-regione».
Nella sua descrizione della visione del mondo neoliberista, David Harvey (A Brief History of Neoliberalism) sottolinea come la pretesa «neutralità» della filosofia Chicago-centrica sia smentita dal fatto che l’accumulazione capitalista sia una costante, mentre «lavoro e ambiente sono trattati come mere commodities. In caso di conflitto – scrive Harvey – il tipico Stato neoliberista sceglierà sempre un miglior clima per gli affari piuttosto che i diritti collettivi (e la qualità della vita) della forza lavoro o la capacità dell’ambiente di rigenerarsi». Così è visto anche l’intero ecosistema Mekong dalle elite politiche che dovranno deciderne il futuro. A meno di clamorose smentite dell’ultima ora.