Dragonomics – Chi apre il portafoglio

In by Simone

Secondo l’economista Yukon Huang, tutti i problemi della Cina si sintetizzano nella questione fiscale, cioè di budget. I governi locali sono tenuti a spendere più di quanto incassino dalle tasse, così arraffano dove possono. E porre il problema del bilancio al centro dell’agenda politica – come il Terzo Plenum sembra avere fatto – può perfino aprire nuovi spazi di democrazia. Dove trovare un filo conduttore in ben “sessanta raccomandazioni” condite da un numero multiplo di dettagli? Sì, stiamo ancora parlando delle riforme cinesi, quelle varate dal Terzo Plenum del Partito comunista il mese scorso. Il loro significato complessivo – come già sottolineato – sta nel tentativo di garantire nuova crescita alla Cina e stabilità al sistema politico, attraverso un trasferimento di risorse dagli interessi costituiti, che si annidano soprattutto nel settore pubblico, alla grande massa delle famiglie cinesi (settore privato): il futuro, ipotetico, ceto medio soddisfatto e “armonizzato”. Ora la domanda è: come?

Il problema sono proprio le risorse. Dove trovarne di nuove, se il modello Deng della “fabbrica del modo” si è esaurito? E soprattutto: come spendere bene i soldi?
Bisogna azionare le leve della finanza pubblica: quella cosa che in inglese si dice fiscal policy e che non deve trarre in inganno quando la si traduce in italiano, perché non riguarda solo il regime fiscale (tributario), bensì tutte le politiche che riguardano la spesa dello Stato, le entrate e il suo debito. È questa la tesi di Yukon Huang, analista senior del Carnegie Endowment for International Peace e, soprattutto, ex country director della Banca Mondiale per la Cina (1997-2004).
Come in Occidente, il problema più grande è il bilancio”, dice in un incontro promosso dal Foreign Correspondant Club of China (Fccc) presso l’ambasciata del Belgio di Pechino.

“Prima del Plenum – osserva Huang – il 95 per cento degli articoli comparsi sulla stampa occidentale sosteneva che il problema della Cina è la crescita squilibrata [l’aumento del Pil trainato troppo dagli investimenti e troppo poco dai consumi, ndr] e che quindi bisogna riequilibrarla. Ma il Terzo Plenum non ha detto mezza parola su questo argomento. Il 90 per cento degli articoli identificava un altro problema nel settore finanziario e nei tassi di interesse prefissati, cioè nel ruolo delle banche. Ma anche a questo argomento il Terzo Plenum concede poca attenzione. La sezione enorme del documento conclusivo è sulla finanza pubblica”.

Secondo me hanno ragione”, afferma l’economista. “Non vi è alcun problema di crescita squilibrata, in Cina. E anche il problema finanziario è di fatto fiscale. È come in Occidente, dove la questione più importante è il bilancio dello Stato”.

Uno dei conflitti più evidenti nella Cina di oggi è quello tra centro e periferia. Il funzionario locale incapace e con le mani in pasta è diventato ormai uno stereotipo sul quale fa leva anche la campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping, quella che dovrebbe colpire “sia le tigri sia le mosche”. Ma a ben vedere, il problema è molto più strutturale che morale (come sempre). Secondo Huang, “Pechino e i governi locali non sono allineati: il governo centrale incassa gran parte delle entrate fiscali – esiste cioè un potere di tassazione centralizzato – ma i governi locali forniscono gran parte dei servizi – le spese sono decentralizzate -. I responsabili della fornitura di servizi non hanno soldi e chi ha soldi non ha invece responsabilità. I funzionari locali non hanno risorse, ma sempre più pressioni per fornire servizi. Cosa fai, allora? Ecco sia il problema del debito sia la ‘politica della terra’, cioè dell’unica risorsa disponibile.”

Per intenderci: Pechino incassa circa la metà delle tasse, ma contribuisce ai servizi sul territorio solo per una percentuale del 15 per cento circa. Al resto pensano province, contee e municipalità, che quindi spendono molto più di quanto incassino dal gettito. Ma in alcune spese chiave come istruzione, assistenza sanitaria e sicurezza sociale, i governi locali sono responsabili per oltre il 90 per cento della spesa.
Confrontando diverse economie, uno studio del professor Zhou Li An dell’unità di Pechino rivela che il governo centrale cinese contribuisce solo a circa il 20-30 per cento del totale della spesa pubblica, contro il 70 per cento della media dei governi Ue, il 60 per cento del governo federale Usa e il 50 per cento di molte economie “in transizione” (come l’Ungheria e la Polonia).

Pechino potrebbe cambiare la redistribuzione del gettito fiscale? Incassare meno a livello centrale e ridistribuire ai governi locali? Difficile, specialmente di fronte ai nuovi impegni da “superpotenza” richiesti dal “grande sogno cinese” del presidente Xi e alla crescita esponenziale delle spese per la sicurezza esterna e interna (più la seconda della prima, conti alla mano).

Quindi, “dal momento che il budget è troppo basso – continua Huang – i servizi sul territorio sono di fatto offerti dalla politica delle risorse naturali e da quella della terra. E per gli obiettivi che la Cina si propone nel prossimo futuro, questo bilancio dovrebbe crescere ulteriormente, mentre invece si rivelerà realisticamente sempre più insufficiente.”
Secondo dati del 2010, la vendita delle terre contribuisce già circa al 32 per cento delle entrate dei governi locali.

Per ottimizzare le entrate, le amministrazioni istituiscono le cosiddette aziende di investimento locali (local investment companies – Lic), che “vengono create con un capitale iniziale e la possibilità di commercializzare la terra; possono anche riscuotere tasse e prendere in prestito denaro dalle banche. Così usano il controllo dei terreni come garanzia per prendere in prestito denaro dalle banche attraverso molti intermediari, come le società fiduciarie. Me emettono anche obbligazioni e forniscono servizi come i trasporti e così via”, spiega l’ex country director della Banca Mondiale per la Cina.

“Questo è tutto il problema del debito in Cina”, continua. “Si costruisce troppo, perché i governi locali hanno sotto mano solo la terra, l’immobiliare diventa quindi il modo migliore per valorizzarla e non importa se la gente poi non va a vivere nelle case di nuova costruzione. Ed ecco perché in Cina c’è una sovra-urbanizzazione del territorio e una sotto-urbanizzazione delle persone”, spiega Huang, intendendo con questo il processo di progressiva cementificazione: la continua espansione della città senza il corrispettivo inurbamento dei cittadini. Perché i servizi e i trasporti in queste aree di nuova costruzione sono pessimi (e quindi i migranti tendono a concentrarsi nei centri urbani già esistenti), mentre d’altra parte l’espansione del “modello urbano” crea problemi ambientali, come quelli relativi all’acqua e all’inquinamento. Un paradosso: ghost town che distruggono il territorio senza che almeno diano alloggio a qualcuno.

Risolvi il problema fiscale, quindi, e risolvi “quello urbano, quello finanziario e quello del debito”, insiste Huang. E per farlo bisogna ridisegnare il rapporto tra le fantomatiche Lic, il governo locale, le banche e gli intermediari finanziari, un mondo oscuro che gonfia anche il problema dei crediti tossici.
Il primo passaggio, secondo l’economista, è quindi la trasparenza: “Bisogna permettere alle Lic di esistere e di diventare un ramo del governo locale, rendendo tutti i processi chiari e stabilendo alcune regole. Risolvere questo problema e si risolve il problema del debito della Cina”.

E non solo quello: “Se la questione del bilancio diventa davvero importante anche qui, le sezioni locali del congresso del popolo e del Partito devono compiere un passo in avanti in termini di responsabilità e trasparenza, sono tenute a soddisfare determinati standard. Quindi, la spesa pubblica può diventare anche la spinta verso una sorta di democrazia locale.”